TRAMA
Storia tratta dalle cronache del tempo (XVII sec.) di Mohei e Osan che, presi da una ragnatela tessuta dal destino, divengono amanti commettendo adulterio nei confronti dello spietato Ishun, padrone della tipografia nella quale lavora Mohei e marito di Osan.
RECENSIONI
Come si evince facilmente dal titolo originale, Chikamatsu Monogatari (Una storia di Chikamatsu), il film tradisce una derivazione ancora una volta letteraria. Il referente è uno dei più grandi drammaturghi della letteratura giapponese, Chikamatsu Monzaemon, vissuto tra il XVII e il XVIII sec., autore di numerosissime pièce teatrali (jidaimono, opere a soggetto storico e sewamono, opere d’attualità a sfondo sociale) per il kabuki e per il bunraku, reso celebre in occidente dallo straordinario Dolls di Kitano “Beat” Takeshi, il quale oltre al richiamo esplicito all’opera Meido no Hikyaku (I messi dell’inferno) di Chikamatsu, vanta notevoli assonanze con Gli amanti crocifissi di Mizoguchi, soprattutto nel disegnare con la disperata bellezza che contaddistingue il suo stile l’infelice storia d’amore dei “viandanti del filo rosso”. Chikamatsu Monogatari fa direttamente riferimento all’opera Daikyōji mukashi-goyomi(L’almanacco dei tempi antichi) tratto da un famigerato episodio accaduto a Osaka nel 1683 e raccontato anche da Ihara Saikaku (altro grande scrittore del periodo Tokugawa a cui lo stesso Mizoguchi aveva attinto per Vita di O-Haru, donna galante).
L’ennesimo leone d’argento veneziano (è il terzo della sua carriera), indubbiamente una delle sue pellicole più affascinanti e riuscite, condensa una miriade di tematiche care all’autore facendole ruotare grazie a una sapiente maestria registica intorno al tema portante dell’adulterio come trasgressione della legge. Questo trasgredire si annuncia da subito evidenziandone la deterrenza: per gli amanti sacrileghi che osano consumare il loro amore al di fuori della legalità esiste un destino già scritto, o il suicidio affrontato insieme (è il grande tema del shinju, il suicidio degli amanti) oppure l’esposizione al pubblico sdegno tramite la crocifissione (l’esemplarità dello harizuke, crocifissione, inesorabile sorte che attendeva gli adulteri, è certamente ripresa dai metodi di tortura del mondo occidentale) e la conseguente messa a morte, tertium non datur.
Gli amanti crocifissi evoca già ab initio, mediante la sequenza della crocifissione della sposa di un samurai e del domestico suo amante (superbo uso dello spazio nell’inscenare la tragicità composta della processione), l’immagine di un destino che si prenderà tragicamente gioco degli eroi del racconto, Osan, la moglie dell’avido padrone della tipografia Ishun, e Mohei, impiegato di quella tipografia; un destino che li vuole dapprima ossequiosi nei confronti della legge (tantoché provano loro stessi vergogna nel vedere la pubblica esecuzione dei due trasgressori), anche perché durante l’era Tokugawa (1603-1868) si assiste ad un sostanziale assestamento socio-politico delle istituzioni sull’intero territorio giapponese, in cui l’immobilismo di matrice confuciana consente di fondare saldamente l’etica sociale sulla legge, in cui cioè chi valica i confini della legalità oltrepassaeo ipso i confini dell’etica. Infrangere la legge significa anche e soprattutto scegliere volontariamente il degrado morale. Sarà quello stesso destino beffardo a scoprirli insieme, per caso, appunto, nella stessa stanza da letto, a coinvolgerli in una struggente, amara, folle storia d’amore. Un destino che unirà e dividerà due vite attraverso l’amore prima e poi la morte, inevitabilmente, legando chiasmicamente i due amanti infelici ai medesimi ceppi che da sempre, in ogni luogo e in ogni tempo, vincolano l’uno all’altro l’uomo e la donna, eros e thanatos.
Pur tuttavia l’amore che lega Mohei e Osan destinandoli ineluttabilmente a una fine atroce (Mizoguchi risulta magistrale nel disseminare il film di simbologie malauguranti: le acque limacciose del lago in cui in un primo momento i due amanti decidono di suicidarsi, le brume di quello stesso lago che prefigurano una condizione di assoluta incertezza, la notturnità tetra e sinistra della loro fuga, la torbidezza delle acque di uno stagno, ancora, sulla quale ama indugiare la m.d.p. del regista; immagini che contribuiscono ad anticipare quel senso di inesorabilità di una fine imminente), senza possibilità di redenzione alcuna, è l’unico elemento la cui folle irruenza può spezzare le catene di una vita spesa sì nel rispetto della legge, ma anche nella passività supina nei confronti di chi attraverso quella legge esercita, abusandone, un potere in grado di umiliare il prossimo attraverso biechi meccanismi di sudditanza, trattandolo con sottomissione (Ishun nei riguardi della moglie Osan, bellissimo in proposito il primo piano sul volto di Osan dopo il dialogo con il fratello bisognoso di danaro che dice tutto sul suo meschino rapporto col marito), o facendo scontare la posizione di subalternità (Ishun rispetto a Mohei).
Straordinaria infine la costruzione narrativa che conduce destinalmente i due amanti alla morte, attraverso un percorso tortuoso e periglioso in cui l’utilizzo del chiaroscuro, delle ombre, dunque, come simbolo quasi minacciosamente mortuario, non abbandona mai il loro viaggio verso un’insperata libertà dalle strutture sociali, dall’occlusura, di nuovo simbolica della tipografia-abitazione-gabbia, all’aperto della natura che diviene figurativamente sacrilega e impervia come i due amanti che più di una volta sacrificano la loro felicità ora in fatali abbracci in campo medio ora in distanziamenti coatti che si perdono nelle profondità di campo.