TRAMA
Julianne lavora come critica gastronomica per la rivista di George, suo editore nonché confidente. Venuta a conoscenza dell’imminente matrimonio di Michael, vecchia fiamma ed ora suo migliore amico, con la bella e spumeggiante Kimmy figlia di un potente industriale, entra in crisi e parte per Chicago allo scopo di impedire con ogni mezzo l’”irreparabile” unione…
RECENSIONI
Campione d’incassi negli Stati Uniti nel 1997, fu lì salutata, in modo alquanto approssimativo, come la "rinascita della commedia sofisticata". Per cominciare “My Best Friend’s Wedding” non è una “commedia sofisticata”, anche se ispirata manifestamente a “Susanna” di H.Hawks (forse la più bella e la più “sofisticata” del genere), ma più propriamente classificabile come commedia “romantica”, dove il tema dell’amore predomina sugli altri; con alcuni momenti indubbiamente divertenti ma per lo più orientata alla descrizione del comportamento dei personaggi (con un particolare approfondimento psicologico in quelli femminili) e severa nei confronti di una classe borghese sempre più ipocrita, frenetica e superficiale (pur tuttavia senza arrivare a deriderla e smantellarla con il sarcasmo corrosivo di un Billy Wilder o con la perfidia di Altman). Se quest’ultimo intento è andato a buon fine, ciò è merito quasi esclusivo di una sorprendente Julia Roberts che dà credibilità e sfumature ad un personaggio complesso e non certo edificante: una donna ambiziosa e competitiva che percorre la sua esistenza di corsa e in superficie, mai disposta a mettersi in discussione, abituata ad avere tutto per poi buttarlo via (soprattutto gli uomini); in realtà timorosa e incapace di fermarsi per vivere in profondità qualunque rapporto, “non abbastanza forte da potersi permettere di essere vulnerabile” (volendo citare una frase pronunciata nel sottovalutato “Ragazze” di Mike Leigh) tanto che una fine allegoria del “modus vivendi” di Julianne è data proprio dal suo lavoro di critica gastronomica, lavoro che sbriga di solito attribuendo al piatto in esame due aggettivi perentori e definitivi. La consapevolezza della prima sconfitta nella sua vita e il conseguente amor proprio ferito si mantengono in problematico equilibrio con la percezione di un inusuale principio di innamoramento in Julianne, sicché la motivazione che spinge la ragazza alla riconquista ad ogni costo e con ogni mezzo di Michael non è unidimensionale ma sempre frutto di due componenti dinamiche in continuo movimento. Un’altro aspetto che dà spessore al personaggio centrale della commedia è quel misto di orgoglio e paura che impedisce di fatto a Julianne di dichiarare il proprio sentimento a Michael (che si materializza nella scena superbamente interpretata dalla Roberts nella quale è in lotta con se stessa durante la gita in barca con quest’ultimo sulle acque del Michigan; e ripresa magistralmente con movimenti circolari della camera). Questo impercettibile finissimo oscillare tra orgoglio e amore, determinazione e paura è uno degli aspetti migliori del film ma rimane comunque prerogativa del personaggio di Julianne. Infatti non è altrettanto credibile l’interpretazione di Michael fornita da Dermot Mulroney che gigioneggia alla Tom Cruise, mostrando così poca ironia e espressività da rendere poco plausibile ciò che Julianne ripete dall’inizio del film e cioè che loro due sono caratterialmente simili! Ma la sorpresa più eclatante di “My Best Friend’s Wedding” è la straordinaria performance di Rupert Everett nella parte di George, l’editore di Julianne. C’era bisogno di un personaggio così: infatti il ritmo della commedia nel complesso langue proprio perché l’interesse di P.J.Hogan ad approfondire il lato psicologico e realistico della storia lo porta fatalmente a costruire sequenze diluite e dialoghi seriosi. Ma quando entra in scena George, chiamato al telefonino da una disperata Julianne sempre in momenti poco opportuni e imbarazzanti, il film diventa esilarante con sequenze comiche da antologia e i pochi momenti in cui il film decolla come commedia sofisticata sono dovuti proprio all’attore inglese, che da una parte cerca di convincere la sua amica che la sincerità è l’unico modo di affrontare il problema e dall’altra è costretto continuamente a recitare per tirarla fuori dalle situazioni senza uscita in cui si è cacciata, come quando si finge suo promesso sposo, lui che è gay!. Da apprezzare anche la prova di una Cameron Diaz perfettamente in parte come promessa sposa, che quando “duetta” con l’”avversaria” Julia Roberts produce scintille tali da costituire un dignitoso aggiornamento nella tradizione degli scontri cinematografici al femminile (con il campionario dei colpi bassi modernizzato con il karaoke o il computer). In modo particolare è rappresentata efficacemente l’ipocrisia tipicamente femminile che spinge due donne che vogliono lo stesso uomo a frequentarsi assiduamente, chi per controllare la rivale chi per seminare zizzania, il tutto fra sorrisi simulati e falsi complimenti. Purtroppo la vena brillante della Diaz è molto trascurata nella seconda parte del film che cade inesorabilmente in qualche eccesso di sentimentalismo, cui il regista cerca di porre rimedio con “sdrammatizzanti” siparietti musicali decisamente brutti e fuori luogo (tra l’altro una delle scene più pubblicizzate, quella in cui un intero ristorante si mette a cantare “I Say a Little Prayer”, è da apprezzare solo per la scelta della canzone...). A salvare il finale piatto e anche un po’ melenso, pur con qualche elegante ellissi, ci pensa la scena conclusiva del film, con l’ultima “recita” di George al telefonino nella parte del seduttore allo scopo di tirare su l’affranta Julianne. In sostanza si può affermare che “Il Matrimonio del Mio Migliore Amico” è un film riuscito, con troppi difetti per essere definito “una delle migliori commedie degli ultimi anni”, ma molto più “sostanzioso” di quanto si possa immaginare ad un primo approccio. Eppoi far "perdere" il protagonista di una commedia, anche se a vantaggio di chi persegue valori tradizionalmente considerati positivi, è pur sempre una scelta rischiosa negli States.
Dopo gli Abba di Le Nozze di Muriel, l'australiano Hogan, in trasferta hollywoodiana, rispolvera Burt Bacharach, tuffandosi nel passato per riportare alla luce la commedia sofisticata di Susanna, Scandalo a Filadelfia e Incantesimo. Ha voglia di cantare come ad un karaoke, ed è tentato più volte di trasformare la commedia sentimentale e degli equivoci in un musical: dai titoli di testa fino al canto in falsetto fra l'elio dei palloncini. La trama segue solo in apparenza delle orme "classiche": la protagonista non è certo un'eroina, rappresenta un universo femminile refrattario al rapporto di coppia impegnativo ma pronto a sfoderare le unghie nella competizione con le altre donne per un uomo su cui s'è perso l'ascendente. Le azioni di Julienne, per quanto motivate, sono riprovevoli, usano l'inganno perché incapaci di un confronto diretto. D'altro canto, la promessa sposa non è odiosa, ma pecca di mancanza di carattere e poco acume intellettivo, è esattamente l'opposto di Julienne. Per chi fare il tifo? È curioso notare che, mentre la sceneggiatura di Ronald Bass tende a ricamare sempre e comunque sulle scene ironiche, la regia sembra agire in modo contrario, calcando lo sguardo feroce sul femminino mentre sono in moto i meccanismi accademici per divertire lo spettatore. L'effetto è straniante, il fondale su cui si muovono con leggerezza le figure è amaro. Fra accenti commossi (il discorso agli sposi di Julienne), malinconia (il "momento che passa" sotto il ponte) e gag spassose (quella del cellulare), Hogan concede solo un "happy end" per procura, dopo un animato duello di lingue nel bagno delle donne. Eccellenti Diaz e Everett.