Drammatico, Mitologico, Recensione

MEDEA

TRAMA

Medea fugge dalla Colchide per amore di Giasone dopo avergli consegnato il vello d’oro, ma una volta a Corinto la relazione trai due amanti, congiunti in matrimonio, sarà interrotta bruscamente dal ripudio di Giasone invaghitosi di Glauce, figlia del re della città.

RECENSIONI

La tragedia euripidea offre il fianco a Pasolini per riattualizzare, come sta già contemporaneamente facendo conAppunti per un’orestiade africana, l’indagine del rapporto tra mythos e logos. Il film è frutto di una grossa operazione produttiva che coinvolge capitali italo-franco-tedeschi, ed è quasi una novità per un regista abituato ad un pauperismo economico quasi ascetico, tanto che incominciano a circolare accuse di compromissione e connivenza con i cosiddetti poteri forti dei grandi circuiti di produzione cinematografica. Protagonista assoluta della pellicola avrebbe dovuto essere la polifonia dei cori di una Grecia arcaica per una rappresentazione costruita precipuamente sulla sonorità, con la voce di Maria Callas a fungere da elemento semanticamente portante dell’impalcatura filmica. L’idea di fondo di questa coralità connotativamente narrante rimane, ma il film, per un felice ripensamento pasoliniano, diviene straordinariamente silenzioso. Nasce l’idea di affidare il senso tragico della vicenda alle “visioni di Medea” (che diviene anche, inizialmente, in fase embrionale, il titolo dell’opera).
Medea si annuncia pertanto come un film che vive di epifanie visive a partire dall’incipit di poderosa suggestione in cui un fulgido sole divino e pre-olimpico sorge dando vita e abbrivio alle immagini e alla storia a venire. La natura appare come un evento spirituale da contemplare con panica partecipazione, quando il nostro sguardo cesserà di osservare panteisticamente la natura allora sarà eo ipso la fine stessa della natura come tale, l’uomo si staccherà definitivamente e irreversibilmente da essa dando luogo ad un inconciliabile dualismo. L’inesorabilità del passaggio da natura a cultura, da emozione a ragione è spiegata con placida ingenuità dal centauro Chirone a Giasone fanciullo, conscio che sarà un transito inevitabile, destinale, per lui (la natura bestiale del centauro verrà soppiantata da quella esclusivamente umana del pedagogo bipede) come per tutta l’umanità, Giasone compreso. Nel passaggio dall’astoricità alla storia, dal sentimento alla razionalità, si smarriscono i miti e si perdono i riti, come quello, ancestrale, della fecondità che Pasolini immerge in un’orgia di suoni e di colori.
Medea non è solo e semplicemente una donna, l’incarnazione dell’eterno femmineo, ella è colei che riesce a farsi depositaria di un antico sapere fondato sulla suprema corrispondenza micro-macrocosmica (il sapere del corpo e della terra, come dice Christa Wolf nella sua Medea), e che per questo sarà da tutti guardata con disprezzo e diffidenza (la paura sociologica del diverso), un sapere che rischierà di sgretolarsi sotto i colpi funesti di un principio raziocinante che imbriglia la conoscenza attraverso griglie teoretiche invece di liberarla aprendola alle misteriche corrispondenze della natura (a un certo punto Medea affermerà “sono un vaso pieno di un sapere non mio”). L’asperità selvaggia e calda degli scenari della Colchide lascia il posto all’algore della rigidità geometrica delle forme architettoniche di Corinto (in realtà Piazza dei Miracoli a Pisa), la società tribale si trasforma in socialità organizzata della polis. Ecco che l’esperienza di Medea, sacerdotessa di Ecate, nelle arti magiche diviene in Pasolini potere in grado di trasfigurare la storia annunciandosi come sogno e visione sovvertitori di ogni logica asservita al potere (quella dei tiranni, quella di Giasone che vuole Glauce perché è figlia del re Creonte). Il silenzio verbale (le parole arriveranno, infuocate, solo nel finale tragico, quando nulla potrà essere salvato, quando niente oramai può venire catartizzato) lascia deflagrare le immagini che, allucinando, raccontano non tanto la morte quanto il senso di morte e di funereo annunciato (come in uno specchio deformante, quello di Glauce) dalla nuova epoca dell’intelletto e del pragma, un kyklos che, spezzato nei suoi opposti vita/amore-morte/odio, non si riconoscerà più nella sua essenza più compiutamente circolare (come accadeva invece nell’esemplarizzazione del rito), circolarità peraltro già recisa dalla colpevole, benché “necessaria”, accettazione da parte di Medea di abbandonare il suo mondo e i suoi affetti (il “sacrificio” del fratello, colmo di efferata “fatalità”). Stupefacente il grado di psicologizzazione impresso da Pasolini al testo euripideo per cui il senso del tragico assume nuove e forse più attuali e profonde sfumature (se ne ricorderà anche von Trier quasi vent’anni dopo nella realizzazione della sua Medea, riproponendo immagini che si sovrappongono al volto terrifico della barbara sposa dell’argonauta) celando dietro la tenerissima e spietata atrocità del gesto materno infanticida di una donna e del suo odio per l’uomo che una volta ottenuti i suoi favori la ripudia e abbandona il significato metaforico di una violenta crisi socio-culturale.