TRAMA
Jessica, una donna inglese in visita alla sorella a Bogotà, viene attirata da un misterioso suono che la sorprende più volte: di notte, per strada, in un ristorante. È reale il suono o è solo nella testa di Jessica? La ricerca dell’origine dello strano fenomeno, prima da un medico poi in uno studio di registrazione, e la visita ad Agnes, archeologa che studia resti umani scoperti durante uno scavo, porta Jessica dalla città alla foresta, dove incontra un pescatore che le fa capire come ogni persona è connessa alle altre e le mostra ricordi di vite mai vissute.
RECENSIONI
Dopo il Leone d’Oro del 2006, Jia Zhang-Ke ha aspettato sette anni prima di far uscire un nuovo lungometraggio di finzione. Nel frattempo, il regista cinese ha saputo capitalizzare il prestigio acquisito per allargare notevolmente la portata dei suoi due film successivi in termini specificamente produttivi oltre che genericamente di ambizione. Sia A Touch of Sin che Mountains May Depart avevano infatti ormai una dimensione compiutamente globale, raggiunta anche conferendo ad entrambi una sicura, ben inquadrabile leggibilità.
Non è peregrino evocare la parabola di Jia a proposito del nuovo film di Apichatpong Weerasethekul. Tra la Palma del 2010 ed oggi, un solo lungometraggio di finzione (Cemetery of Splendors), e la decisione di uscire dalla Thailandia per realizzare un progetto esplicitamente globale come questo Memoria, girato con Tilda Swinton in Colombia e coprodotto, fra gli altri, anche da Jia Zhang-Ke.
Se ai film di Weerasethekul il termine “leggibilità” non calza esattamente come un guanto, Memoria si lascia comunque inquadrare abbastanza a colpo sicuro. Piuttosto riconoscibilmente, Memoria guarda a un complesso tematico esplorato ormai da decenni di arte contemporanea: la transizione dell’apparato sensoriale umano al di là dell’egemonia della visione oculare, frontale e prospettica, verso un orizzonte tattile e sonoro che avvicina l’essere umano al sentire delle piante, degli animali, delle macchine, dei minerali persino.
Il valore di Cemetery of Splendor stava nel combinare questo programmatico post-umanesimo (che vede nel cosiddetto “global South” una specie di laboratorio, o testa di ponte che guida l’umanità intera attraverso questa transizione) con un freudo-marxismo sanamente “old school”. Non è tuttavia il caso di Memoria, la cui sottotraccia onirica è, oltre che nettamente marginale, un po’ a rischio di pretestuosità, e l’idea che il nuovo assetto di percezione e memoria che ci troviamo di fronte sia di natura essenzialmente sociale e collettiva, o quantomeno transindividuale, viene un po’ depotenziata dal suo coincidere strettamente con l’arco drammaturgico.
Ben prima che venga rivelato nel climax, si intuisce agevolmente che il suono misterioso intermittentemente quanto ossessivamente udito da Tilda Swinton appartenga alla memoria di un’altra persona. Che gli individui siano monadi è del resto qualcosa di concepibile solo associando la soggettività a un definito punto di vista oculare sul mondo. Caduta quella premessa, il mondo torna ad impastarsi in un disincarnato “world wide web” premoderno, immanente all’indistinto della materia.
Che futurismo e primitivismo si tocchino viene confermato nel finale, con una “Jia-esca” (Still Life) astronave posticcia che è anche una sorta di amigdala gigante. Dal suo tubo di scappamento esce un suono accompagnato da un cerchio di fumo; ecco finalmente comparire esplicitamente una forma circolare dopo essere stata “nell’aria” per tutto il film. La rarefazione narrativa, tendente al vuoto, di Memoria è infatti riempita da ingegnosi tentativi figurativi di sostituire lo spazio prospettico della visione oculare, il triangolo “albertiano” polarizzato dallo sguardo del vedente, con lo spazio sferico, a 360 gradi, della percezione sonora. Come da sua abitudine, Weerasethekul rifiuta di considerare il dinamismo come perturbazione della staticità; al contrario, dentro le singole inquadrature il movimento e la trasformazione appaiono in modo illocalizzato, acentrico e/o disperso (e se sono localizzati sono affetti da una lentezza al limite della catatonia), in modo da agevolare quello sfogliarsi di staticità, totale fisso dopo totale fisso, che per Weerasethekul è l’unica vera definizione di dinamismo possibile. Un partito preso “anti-occidentale”, anti-aristotelico costruito giocando su punti di fuga laterali che ridimensionano la tridimensionalità prospettica riavvicinandola alla bidimensionalità, e spesso perturbandola con un perno centrifugo/centripeto (un albero, un monumento, un ballerino improvvisato in mezzo alla strada) che reintroduce surrettiziamente la sfericità dello spazio sonoro.
Non a caso, uno dei personaggi suona in un gruppo chiamato “la profondità dell’illusione”: non la rinascimentale illusione della profondità, ma uno spazio in cui solo la bidimensionalità è reperibile, all’interno del quale tuttavia da un momento all’altro possono aprirsi profondità in ogni direzione possibile tranne quella frontale: una porta chiusa, con una panchina davanti, al lato esterno dell’inquadratura, che all’improvviso perde la sua bidimensionalità (ma non la sua lateralità) quando viene aperta dopo che le panchine vengono fatte spostare; un carrello laterale la cui bidimensionalità viene analogamente sfondata quando, dal muro radente a cui camminano i personaggi accompagnati dalla macchina da presa, si spalanca fuggevolmente l’ingresso di un garage, di un mercato coperto o simili; una galleria di cui è visibile lo sbocco in diagonale, dentro cui tuttavia avvengono scavi archeologici che complicano quella diagonalità con una traiettoria verso il basso.
L’abbondanza (molto maggiore di questi pochi esempi) e la densità di questi espedienti figurativi rende Memoria una riconoscibile sistematizzazione teorica dell’estetica di Apichatpong Weerasethekul. Quasi un manifesto. Il che potrebbe far storcere il naso, e far credere che quest’opera sulla transizione post-umana sia innanzitutto, e più semplicemente, un’opera di transizione nella filmografia stessa del regista thailandese, auspicabilmente verso lidi più originali. È difficile, tuttavia, non rimanere favorevolmente impressionati dalla felicità, dalla validità, dalla varietà e dalla godibilità delle soluzioni formali escogitate da Weerasethekul, che senza cerebralismi costruiscono un’autentica esperienza in cui lo spettatore finisce volentieri risucchiato: quello di uno stato (nuovo? Immaginario?) della percezione non centralizzato nell’apparato oculare, ma aperto all’occorrere della sensazione potenzialmente a 360 gradi, senza che del lineare svilupparsi della sensazione in una concatenazione di azioni e reazioni rimanga più che l’ombra. Come un suono di cui immaginiamo la fonte, ma la cui “profondità dell’illusione” comincia e finisce con l’essere udito. Come camminare circospetti, a tentoni, nel buio.