Thriller

LA REGINA DEI CASTELLI DI CARTA

Titolo OriginaleLuftslottet som sprängdes
NazioneSvezia
Anno Produzione2010
Genere
Durata148’
Tratto dadal romanzo di Stieg Larsson
Scenografia

TRAMA

Lisbeth, ricoverata in ospedale, scampa alla mano assassina di un gruppo clandestino dei Servizi Segreti che ha già tolto di mezzo suo padre Zalachenko. Lo Stato vuole processarla, il fratellastro ucciderla, il primario di un ospedale psichiatrico rinchiuderla per sempre. Ma Mikael Blomkvist è dalla sua parte.

RECENSIONI

Il primo era un giallo, il secondo un dramma femminista di vendetta, questo è un thriller politico/giornalistico con complotti e spionaggio e, da un certo punto di vista, oltre ad essere il più verboso, è anche il peggiore della trilogia “Millennium” tratta da Stieg Larsson. Perché Neils Arden Oplev dirigeva in modo efficace Uomini che Odiano le Donne basandosi su di una struttura di genere, Daniel Alfredson rovinava nel sensazionalismo La Ragazza che Giocava con il Fuoco che, però, era il più composito e originale mentre ora, con un materiale più standard, sbaglia poco non rischiando niente, utilizzando convenzioni drammaturgiche rodate nella messinscena dell’innocente-incastrato con dramma processuale e manicheismo nelle fazioni. Paradossalmente perché inopportuno, fa ciò che si auspicava per il precedente capitolo, che comprimeva le molteplici direttrici del romanzo in poche sbrigative e grossolane pagine filmiche: allunga oltremodo la durata della pellicola, rendendo lasca, spossante e (figurativamente) televisiva (e per il piccolo schermo è stata approntata una versione più lunga) una materia che, se ben stringata, poteva gareggiare con i cugini hollywoodiani, a patto di rivedere le già esigue scene d’azione (imbarazzante la prima: due poliziotti inerti in attesa di essere stesi dall’energumeno). La trama è sempre tanto convenzionale quanto intrigante e con tocchi eccentrici (il killer decrepito in ospedale), i personaggi restano generalmente inconsistenti: un’approssimazione che si paga, ad esempio, nell’immotivata e incoerente (con la figura dell’eroe) parte in cui Blomkvist se ne frega dei pericoli che corre la sua redazione. L’unica ragion d’essere della trilogia resta Noomi Rapace, con la sua Lisbeth che gioca sui silenzi, gli sguardi di rabbia e il physique du rôle, mentre raccoglie le proiezioni del pubblico nell’anarchia contro le regole di uno Stato che non le segue, nelle provocazioni (la mise punk al processo!) che sfidano l’ipocrisia dei benpensanti che le hanno rovinato la vita, nelle azioni da angelo vendicatore contro gli Orchi della nostra epoca, stupratori, porci maschilisti, pedofili, automi della violenza, cospiratori politici con cui opportunisticamente Stieg Larsson l’ha circondata.