
TRAMA
La passione conflittuale del celebre torero Manuel Rodriguez Sanchez, fuori dall’arena timido e di poche parole, per la verace attrice Lupe Sino nella Spagna degli anni ’40.
RECENSIONI
Ci sono film che nascono sotto la stella sbagliata. È sicuramente il caso di Manolete, diretto dall'olandese Menno Meyjes, più noto come sceneggiatore (tra gli altri, Il colore viola) che come regista (gli inediti, sui nostri schermi, Max, Capa e Martian Child - un bimbo da amare). Basta pensare infatti che la sua personale rivisitazione del mito del celebre torero spagnolo Manuel Rodriguez Sanchez è stata girata nel 2006, nel 2008 ha avuto la prima mondiale al Toronto International Film Festival e fino al 2010 vagava nel limbo degli illustri dispersi. Strano, considerando gli elevati investimenti (circa 28 milioni di dollari) e la presenza di due premi Oscar nel cast. Alla luce del risultato, però, la cosa più strana è che la Eagle Pictures si sia decisa a ripescarlo a quattro anni di distanza per distribuirlo in quasi cento sale. Manolete è infatti un oggetto difficilmente identificabile, con evidenti difetti dovuti probabilmente ai numerosi rimaneggiamenti subiti. Manca prima di tutto di coesione. Sembra di assistere a episodi slegati, incapaci di trovare il collante di una sceneggiatura comunicativa e di una regia incisiva. Non aiuta di sicuro la complicata scansione temporale con cui i fatti si succedono, che non si traduce mai in valore aggiunto. Inspiegabile, poi, la voce narrante dell'assistente del torero che apre il film, senza un seguito che in qualche modo la motivi. I riflettori sono accesi in prevalenza sulla contrapposizione tra la mestizia del protagonista, frutto di conflitti irrisolti appena accennati (quell'insistito mamita con cui chiama l'amante nell'intimità), e la forte vitalità del suo ultimo grande amore. Anche in questo caso, però, i gesti, il più delle volte esagitati, non si fanno interpreti di un sentire, perché manca una progressione, un dettaglio rivelatore, una bellezza (palesemente ricercata) che non sia però solo mero esercizio di stile, un punto di vista forte in grado di rendere tali gesti necessari. Tutto finisce quindi per stridere. Dai dialoghi costantemente didascalici e sopra le righe (al primo incontro lei pronuncia battute tipo "Per voi uomini niente è reale finché non sanguina" e "Tu sei il più bell'uomo brutto che abbia mai conosciuto"), ai paralleli banali (il montaggio incrociato che alterna le gambe della Cruz alle zampe del toro), al tessuto musicale tutt'altro che casuale ma ridondante, fino agli immancabili stereotipi del genere (l'elegante rito della vestizione, gli altarini, le candele, gli incensi, i fiori gettati copiosamente dall'alto, il delirio della folla prima complice e poi ostile). Poco aiuta l'utilizzo senza sfumature dei due protagonisti. Adrien Brody, nonostante l'incredibile somiglianza con il reale Manolete, non mostra alcun carisma e risulta anche impacciato nelle poche sequenze nell'arena in cui non è sostituito da una controfigura o da immagini di repertorio. Penelope Cruz non esce mai dai ranghi della fatalona e attraversa il film senza mezze misure, con pose che si presumono sexy (sarà per questo che dobbiamo sorbircela mentre addenta con bramosia una mela fino al torsolo). Del loro forte legame, della comune attrazione per il baratro, del mistero delle pulsioni, delle ombre e delle luci del loro rapporto, visto che è quasi esclusivamente su queste che il film si concentra (il contesto storico, con la dittatura di Franco nella Spagna degli anni Quaranta, è più che marginale), non restano quindi che tacchi alti, il rosso delle labbra e del sangue, il luccichio dell'oro e del sole, una porta che sbatte. Solo fotografie dai colori accesi che il cinema non riesce a tramutare in vibranti fotogrammi.
