TRAMA
David, reduce dalla guerra in Iraq, cerca relax tra le montagne europee. Troverà un abisso di violenze.
RECENSIONI
E' una questione di toponomastica. Nel secondo lungometraggio di Federico Zampaglione (del primo meglio tacere) i protagonisti si trovano in prossimità del passo Shadow (location: le montagne del tarvisiano). Siamo in una zona liminare, di confine. In una zona di proiezioni. Di ombre: figure che ricalcano i margini della realtà, annullando le sfaccettature, i caratteri identitari. Shadow dà corpo a tracce del reale. Il vissuto del protagonista, reduce dalla guerra in Iraq, in perfetta coerenza con ciò, si trasfigura nella propria ombra: oltrepassate le Frontière(s) tra realtà e immaginazione, della vita (e del cinema, sua rappresentazione) vediamo l'immagine semplificata. I luoghi sono quelli - comuni e triti - del genere di riferimento, i personaggi sono costruiti secondo stereotipizzazioni: nel regno delle ombre non c'è psicologia. E' ridotta al grado zero, sfrondata sino a giungere al mero istinto, sino alla sospensione del raziocinio: ad azione corrisponde reazione, alla causa, senza fronzoli, l'effetto. Non c'è mediazione, solo violenza. Il disinteresse per l'indagine introspettiva apre il film alla continua possibilità dell'efferatezza: non ci sono sfumature nei personaggi, c'è solo un'incontenibile, imprevedibile - e perciò perturbante - animalità primordiale (la dialogistica ne risente, memore dei Maestri visionari di casa nostra). Quelli che il finale svelerà essere scontri etici tra militari si radicalizzano in una feroce caccia all'uomo. Poi l'ombra si fa negativo, trasforma i delitti in castigo: la logica del contrappasso è impietosa, il teatro della tortura sostituisce il luogo di cura, le braccia armate del Potere del Potere divengono sadicamente cavie. Shadow è una zona sospesa in cui l'immaginario stuprato del militare si salda ai canoni del survival e del torture porn: il fulcro è l'immagine della guerra, il cancro è l'avere visto (e gli occhi non hanno altri filtri che le palpebre), l'essere testimoni, l'essere contenitori di memoria: le pellicole proiettano filmati, i reduci i propri incubi. Dai quali non si scappa: nei survival non si sopravvive senza correre.
Lo sguardo di Zampaglione coniuga l'estetica della crudeltà del cinema di genere nostrano all'immediatezza simbolica e la sfrontatezza del cinema horror francofono (di cui non possiede la medesima foga, la medesima violenza grafica, il medesimo rancore politico, nonostante i rimandi espliciti alla storia e all'attualità, nonostante il film in ultima istanza sia un cripto-remake di Frontière(s)), ne mutua l'insolenza citazionista (da Argento a Bergman, passando per Boorman), mappa topoi consueti e ovviamente consunti, sposa stilemi 70ies e ossessioni horror contemporanee. Opera dichiaratamente derivativa, omaggia decenni di cinema terrorifico. B-movie orgoglioso e ambizioso, teso nonostante qualche approssimazione (il finale giustifica retroattivamente ogni difetto di costruzione), facilmente esportabile (non è solo questione di maestranze internazionali) e difficilmente digeribile in (povera) patria, simbolicamente compatto, con un secondo grado cristallino ma non marchianamente palese, Shadow riesce laddove una serie di titoli (anche risibili) ha tristemente fallito: un buon prodotto di genere, dalla buona visibilità, vendibile in mercati esteri. Disinteressato alla fitta sterpaglia di vaniloqui circa la presunta rinascita del cinema horror nel nostro paese, mi limito a ricordare il limbo in cui il film è confinato a due settimane dall'uscita in sala. E Zampaglione è un privilegiato: chiedete a Bianchini se conosce la parola distribuzione, chiedete in quante sale proietteranno Giallo di Argento. A cuore rassegnato: oggi, nel nostro paese, ogni goccia di sangue è d'oro colato.

Il leader dei Tiromancino, dopo la commedia Nero Bifamiliare, ritenta la strada del cinema con il genere che più ama, l’horror: ci sono chiare ascendenze argentiane (basti il commento sonoro che omaggia i Goblin) ma Zampaglione cerca, più che altro, di iscrivere la sua opera nella moda internazionale dei torture-porn, facendo recitare gli attori in inglese e cavalcando un racconto ad apologo morale. Il problema principale non è il low-budget, che il regista ovvia molto bene sfruttando lo splendido scenario montano della Valle del Treja, fra il verde dei boschi, il bianco delle cime innevate e tanta nebbia-shadow (Zampaglione intendeva, a suo dire, ritrovare lo smarrimento nella natura del protagonista di Into the Wild), ma il raccontare in sé che, finché non abbraccia segni allegorici, è completamente privo di profili psicologici o sottotesti di sorta: due grossolani malvagi inseguitori per un Tranquillo Weekend di Paura all’amatriciana, il bello e la bella. Tutto qua. Poi entra in campo il solito aguzzino, in un luogo che porta con sé reminiscenze di mostruosi esperimenti nazisti, ma il torture-porn persevera in dinamiche di genere risapute (tortura, fuga e così via) e a poco valgono i tanti indizi disseminati per un “discorso alto” che resta, purtroppo, a margine, quale abbellimento di una struttura abbastanza superficiale: che siano varie memorabilia del Terzo Reich (fra cui una foto di Leni Riefenstahl e un accostamento facile/ridicolo fra Hitler, Stalin e Bush), una sala di proiezione dove le pizze portano il nome di scenari di guerra da tutto il mondo, il tentativo di fare dell’aguzzino la Morte stessa (con falce) o lo stesso finale da Allucinazione Perversa (o Alta Tensione). Ben vengano, però, registi italiani che, con tale professionismo e passione, battono terreni diversi ambendo ad un mercato meno autoreferenziale.
