TRAMA
In un oratorio sconsacrato ha luogo una prova musicale: il direttore tedesco strapazza gli orchestrali distratti e indisciplinati. Dopo una pausa, l’orchestra si ribella al direttore, rimpiazzato da un grande metronomo. Una gigantesca palla di ferro distrugge una parete. Impauriti, i musicisti riprendono la prova, mentre il direttore inizia a sbraitare in tedesco.
RECENSIONI
Spesso accusato di non essere che satira facilona del Sessantotto, malcelata apologia di fascismo o semplice sfilata di macchiette, PROVA D’ORCHESTRA conserva intatto il proprio segreto: nudo e ambiguo, lineare e contraddittorio, in perenne e sapiente bilico fra tragedia e farsa, al pari di tutte le migliori creazioni di Fellini. Il mondo della musica è un regno ultraterreno in pieno declino, invaso dai segni più deteriori della modernità (le radio clandestine, la troupe televisiva che sta realizzando un servizio sull’orchestra), disperatamente legato al ricordo di un’età aurea che verosimilmente non è mai esistita, se non nell’immaginazione di una “vecchia guardia” stanca e puerilmente superba dei propri deliri (il copista masochista, il clarinetto di Toscanini). Assediata dal caos che invade i titoli di testa e oppressa da una minaccia senza volto, terribile ed enigmatica, l’officina sonora si rivela un’accozzaglia di automi pateticamente fieri della propria importanza (elevatissima: tutti rivelano alla troupe il ruolo basilare dei rispettivi strumenti), che solo eccezionalmente trovano nella musica una fonte di vita (vedi l’arpista, che scompare nel momento in cui non è più possibile fare musica). Il direttore, che pure è il più lucido di tutti (lo prova lo sguardo cinicamente sconsolato su colleghi e pubblico che emerge durante l’intervista), si sente inadeguato al proprio incarico sacerdotale (Ogni musica è sacra, ogni concerto è una messa) e sfrutta il panico generale per competere finalmente ad armi pari con il proprio modello di gioventù: l’Edipo irrisolto assume toni biblici (la difficile prova musicale come traversata del deserto, il grande metronomo come nuovo vitello d’oro) per generare un isterico mostriciattolo. Le celesti armonie di Rota sbocciano da una ragnatela di odio e disprezzo (l’irresistibile degenerare della lite fra primo e secondo violino) in cui l’amore non esiste che come effimera attrazione (gli amanti sotto il pianoforte) e vecchio risentimento (la musicista alcolizzata): il respiro divino nasce da una quiete carica di urla feroci e sussurri inaciditi, svela uno dei backstage più impietosi e potenti mai dedicati all’arte (qualunque arte).
Dopo I Clowns, un’altra felice esperienza televisiva in forma di finto documentario e un altro omaggio ad un’arte prossima a scomparire (nessuno capisce più la musica, secondo il direttore d’orchestra). Ma l’autore riminese alza il tiro, mirando all’allegoria politica del caos in cui è piombata la società dopo le contestazioni figlie del ’68, che hanno rinnegato l’autorità e messo gli uni contro gli altri. Il nostalgico Fellini pare guardare al passato attraverso le figure dell’ex-uomo di “potere”, il direttore d’orchestra, e del vecchio “copista” dell’oratorio: nel rispetto di chi “dirigeva le masse” di orchestrali, anche severamente, si creava una comunione d’intenti al servizio dell’arte e il prodotto finale rendeva tutti più felici. Oggi la “famiglia” è annichilita da dissidi particolaristici; la passione, finanche masochistica, per l’arte e la poesia lasciano il posto all’anarchia, all’odio fra parti, partiti e spartiti (violini vs. oboe, ritmica vs. violoncelli), alla violenza, al becerume, alla disattenzione (i musicisti che, durante l’esecuzione, parlano, bevono o ascoltano le partite alla radio), al particolarismo, alla sterile rivendicazione (sindacale), alla paura che porta all’indecisione su chi dovrebbe detenere il potere. Girato nell’auditorium con maestria nel montaggio, l’apologo di Fellini appare reazionario ma sfugge, anche ambiguamente, alle definizioni e soluzioni, rimarcando solamente che la società, così, non può funzionare. Nell’emblematico finale, il “capitalista” direttore, dopo tanta distruzione, trova “lavoratori” più mansueti, di nuovo proni alla sua voce grossa da “dittatore” (è tedesco…): come dire che, alla fine, la politica non cambia nulla, che il rancore di classe peggiora tutto (defenestrando l’uomo e sostituendolo con la macchina: il metronomo) e che l’unica certezza e meta deve essere l’arte. Un Fellini intriso di amaro sarcasmo che sposta la visionarietà negli svolazzi dei concetti e riserva le doti migliori nello sguardo corale, generoso di tipi leggermente caricaturali.