TRAMA
Il maresciallo Antonio Carotenuto, inviato in un paesino abruzzese, non è vaccinato dal fascino femminile: due donne, la levatrice e la “bersagliera” si giocano il suo cuore.
RECENSIONI
Nei pieni anni Cinquanta Luigi Comencini sforna uno dei maggiori successi commerciali del nostro cinema (due sequel, uno firmato Dino Risi); ma quale ricetta per la travolgente approvazione del pubblico? Oltre ad essere la pietra angolare della commedia all’italiana (ma questo si dirà in seguito), PANE, AMORE E FANTASIA è la coniugazione, troppo bilanciata per essere casuale, del bagaglio neorealista con una comicità di marchio popolare; un’umanità distesa sul brullo meridione crepita al sole di Sagliena, paesino dove i più poveri non possiedono neanche le scarpe. Più che corteggiare l’occhio della massa, il film regala il grimaldello dell’evasione (alle spalle: uno stento chiamato dopoguerra) senza l’ipocrisia di distogliere lo sguardo dal punto di partenza. Ebbene la miseria esiste (“Cosa mangiate?” – “Pane...”) ma esiste anche la speranza (“Pane e cosa?” – “Pane e fantasia, marescià...”), che domanda soltanto di essere assecondata (“Buon appetito!”). Se la trama è esile come una corda di violino, questa non smette mai di tessere una personale melodia; se i personaggi sono squisitamente stereotipi (lo straniero, la paesana, la cretineria dell’appuntato) gli diamo atto che non sbadigliano mai, mantenendosi aggressivi o felicemente interagenti tra loro. Un simbolismo semplice ma efficace si affanna sulla costruzione dell’icona: la Lollo ci mette sé stessa (“all’epoca ero un po’ selvaggia”) e lancia un personalissimo look a cavallo dell’asinello; De Sica denigra bonariamente l’autorità nell’esplosione di umorismo sornione. E’ il loro gioco a due, al centro del gradevole girotondo, a costituire tuttora l’anima e la carne di un’opera che ha vinto la prova del tempo. Quando l’italica commedia non si chiamava ancora Ponti o Pellegrini (né tantomeno un altro De Sica, molto ma molto diverso) e scioglieva per davvero lo sguardo del pubblico, concedendo alla richiesta della pupilla illuminante assoluzione. Erano tutti più ingenui? Il film oltrepassò in disinvoltura i confini della penisola (osannato, tra gli altri, dalla Regina Elisabetta, Perón ed Eisenhower), il culmine dell’applausometro per una volta qualcosa dovrà pur significare...
Opera di gran successo che segnerà le traiettorie del cinema a venire di Comencini, spesso sospeso fra l’assecondare il gusto popolare e il rimarcare un sottofondo di critica sociale: fattore coerente, del resto, con la sua convinzione che un film non è valido se non ottiene una larga risposta di pubblico. A modo suo questo film è anche un link importante con la commedia all’italiana, la naturale evoluzione del neorealismo rosa di Castellani & co. e di un suo sottogenere, “la commedia paesana”, dove il degrado, la miseria delle realtà e mentalità arretrate del nostro dopoguerra fanno (solo) da sfondo a qualche battuta, ad una manciata di buoni sentimenti e di caratterizzazioni simpatiche e a storie d’amore matarazziane ma molto meno tragiche e con paturnie, dove “il lieto fine” è dietro l’angolo. Gli spettatori non hanno certo amato questo film per la critica bonaria ai modi tipicamente pettegoli, bigotti, ignoranti delle piccole frazioni dello stivale (vizi italiani di cui si finisce per vantarsi) o per accettazione della sola “fantasia” con cui imbottire il panino data la povertà: si sono riconosciuti nel microcosmo di dialetti da nord a sud operato attraverso l’arma dei carabinieri e si sono appassionati alle (invero adorabili quanto ammiccanti) schermaglie amorose fra la “bersagliera” della Lollo (lanciata da quest’opera nella veste che è la prova del 9 nel nostro paese per un’attrice: il ruolo di paesana procace e selvaggia) e il timido personaggio veneto di “Statua”. Bisogna essere indulgenti: dopo la drammaticità dei De Sica (regista) e Rossellini, l’Italia aveva bisogno di ricostruirsi riprendendo fiducia. Interpeti tutti bravissimi, con un Gigi Reder giovanissimo, un De Sica che dà il suo benestare (essendoci) ai suoi figli artistici, una Tina Pica (“Caramella”) che regala la scena più bella, quando descrive le forme nude di “Annarella” al maresciallo.