TRAMA
Tradizionale riunione di famiglia natalizia. Con una novità: babbo e mamma annunciano ai quattro figli di voler vivere con uno di loro.
RECENSIONI
Un Natale “con tutti i crismi” nel cuore della provincia italiana (siamo a Sulmona): sorrisi di pietra, frasi di circostanza, regali ineffabili (il cavatappi), uno strato di posticcia armonia sui soliti litigi, le antiche gelosie, le avversioni di sempre. E quando nonna Trieste, ignara Pandora, porta in tavola un inedito piatto, le feste si rivelano finalmente per quello che sono: un regolamento di conti (interni ed esterni alla famiglia, vedi la scena della messa di mezzanotte), una giostra di insulti e umiliazioni, il prologo perfetto di un massacro mignon che accomoda perfettamente e orrendamente le cose. Opera di spicco dell’ultima produzione monicelliana, PARENTI SERPENTI sfrutta il repertorio consueto della commedia italiana (le macchiette, i regionalismi, le grevi annotazioni sessuali) non per rendere più leggero il dramma, ma per caricarlo di una violenza grottesca a dir poco rara (negli ultimi tempi, almeno): la stessa banalità dell’impianto narrativo (il racconto over del nipote, impegnato nel tema sulle vacanze di Natale) contribuisce all’evocazione di un mondo di pessime cose di pessimo gusto, popolato da replicanti rinchiusi negli angusti spazi di un appartamento piccolo borghese, condannati a scannarsi a vicenda, capaci di unirsi solo in una complicità omicida. Si ride molto, e si ride verde. Cast impeccabile, capitanato da una strepitosa Marina Confalone.
Monicelli, affidandosi alla sceneggiatura Premio Solinas di Carmine Amoroso, aggiunge un tassello ai suoi affreschi amaro-satirici sulla famiglia, ma siamo molto lontani dai risultati ottenuti dallo splendido Speriamo che sia Femmina. Il tutto appare poco saporito e graffiante, spesso si ha l’impressione che sia errata la gradazione di spirito immessa nella miscela, se non addirittura del tutto fuori luogo in certe portate con registro diverso. Si parte con una lunga descrizione del ritrovo natalizio per presentare i vari personaggi, ma non c’è ritratto che seduca, così sospesi come sono fra lo stereotipo e la macchietta; si finisce nel paradosso grottesco più caricaturato e pare solo una soluzione di comodo, la più facile per non affrontare di petto il “dramma” (per quanto farsesco) della finta armonia fatta di formalità finto-informali. Invece che sollazzare con veleni e, soprattutto, con qualsiasi riflessione sarcastica (non per questo meno profonda), l’opera si adagia sul luogo comune e il tratto appositamente grossolano per rappresentarlo. Monicelli manca ingredienti, dosi e crescendo, quello che pian piano dovrebbe essere sempre più rivelatore e critico. Per ferocia e misura tragicomica, avrebbe fatto meglio a rivedersi Brutti, Sporchi e Cattivi di Scola. Interpreti da un lato sprovvisti di dialoghi/battute/gag davvero valide, dall’altro non tutti convincenti. Enzo Jannacci, sui titoli di coda, canta “Vivere” di Bixio.