TRAMA
Garbuglio narrativo piuttosto prevedibile tra Londra e gli Stati Uniti che vede coinvolti criminali di grosso e piccolo taglio, di qualsiasi razza, credo, provenienza e ideologia.
RECENSIONI
Carriera folgorante quella dell'inglese Guy Ritchie: arriva, s'impone con un filmetto fatto apposta per cavalcare l'onda scia del più furioso tarantinismo e dopo poco più di un anno si vede spalancare le porte di Hollywood e della celebrità universale, complice il fidanzamento e matrimonio (con tanto di paternità) con la rockstar Madonna. Probabilmente ora crede di sapere quali sono i meccanismi del successo, magari si crede anche un cineasta incredibilmente moderno, spiritoso, innovatore, giovane, pronto per situarsi in quel limbo supercool che permette di intascare dollari a palate senza mai perdere la facciata cult propria delle nuove palpeggianti generazioni di cineasti. E' davvero incredibile la totale mancanza di senso del pudore esibita da Ritchie con questo film, ed è davvero difficile trovare un punto di inizio per cominciare con la devastazione di questo ignobile prodotto filmico, soprattutto dopo aver con certezza appurato che la fatica di scriverne supera di gran lunga sicuramente quella fatta da Ritchie per scrivere, dirigere e montare questo cumulo frammentario e sconnesso di schiuma visiva al suo più infimo grado. La tentazione (forte) è quella di passare ad altro, di liquidare questo film rivolgendo una trafila di insulti al suo infame regista e mettersi l'anima in pace aspettando che lo stesso ci affligga con un ulteriore saggio di tutto il suo squallido repertorio di effettacci paratelevisivi. Eppure la totale disonestà, la vomitevole furberia/moderneria, l'assoluta mancanza di talento mascherata da un'estetica abominevolmente modaiola e l'autoplagiarismo impudico di Guy Ritchie meritano forse qualche parola, in quanto merce (grazie al cielo) ancora piuttosto rara. Ritchie ha il coraggio di ribadire pari pari la struttura narrativa di Lock and stock (del quale qui manca tutto l'umorismo. Era un film che credevamo ingenuo e piacevole, ma che invece portava già con sé i germi di una precoce cattiva fede), sostituendo l'oggetto del desiderio intorno al quale scaturiscono e si scontrano le vicende della varie bande criminali più o meno organizzate. Per un individuo della sua pochezza il gioco è chiaramente fatto, il segreto sta nell'infarcire il film della più pedante estetica da videoclipparo dell'ultima ora, ricordandosi di mischiare per bene le carte in fase di montaggio e di inserire qualche battuta in fase di sceneggiatura. Il risultato è una tristissima sequela di brutture e insulti al buon gusto: ralenty, split screen, fermi immagine che si succedono rapidissimi e micro sequenze montate il più veloce possibile (procedura classica di chi, non avendo capito nulla del cinema, si ostina a scambiare la velocità con il ritmo). Vivissimi complimenti a Ritchie anche per essere riuscito a buttare alle ortiche un cast incredibile, capitanato da due grandissimi attori come Pitt e Del Toro (soprattutto quest'ultimo) che però non è capace di usare, intento com'è a rifriggerli impunemente nei peggiori luoghi comuni del cinema gangsteristico della peggior specie. Ritchie ha realizzato un film che al di là della sua imperdonabile insulsaggine risulta oltremodo offensivo per qualsiasi spettatore, e per questo merita di essere a lungo offeso, sbeffeggiato e umiliato da chiunque abbia la possibilità di farlo. In fondo la scelta di gettare al fuoco dignità, coscienza e buon gusto è stata solo sua, e se da una parte potrebbe (ci si augura sempre di no, nella risibile speranza di vivere nel migliore dei mondi possibili) giovare al suo conto in banca, dall'altra carica i suoi sordidi prodotti di una valenza ideologica bassa e volgare alla quale non si può restare indifferenti.
"The Snatch - Lo Strappo" non è un film. Non stiamo esagerando, semplicemente si tratta di una collazione di esasperazioni, citazioni ed autocitazioni che lo fa rientrare nella categoria delle sbruffonerie. Sì, vero, abbiamo esagerato, è un film. Ma è una gran fatica ammetterlo, si assiste impotenti alla messa in scena dell'ultimo livello di postmodernità possibile: il già visto ed integrato viene rimasticato e (almeno negli intenti) rivitalizzato enfatizzandone i caratteri peculiari. Violenza, stranezza verbale e fisica, intreccio di vicende, dialoghi infantil-demenziali e tutto quanto d'altro si può usare da zeppa per non far tracimare il vuoto pneumatico che c'è in fase di ideazione. Guy Ritchie è abile, maneggia gli strumenti filmici con astuzia e mestiere (alcuni bei raccordi sull'asse, ottima direzione d'attori) ma si fa tirare la mano. L'interessante - anche se non nuovo - percorso di significato dello schermo-nello-schermo viene sfruttato solo nelle componenti più facilmente effettistiche, ecco dov'è il problema: l'apparenza è quel che conta. Ogni elemento non viene caratterizzato per strati ma a colpi di scalpello, deve rimanere in mente, deve stagliarsi come unico ma il regista e sceneggiatore non si rende conto che così facendo stanca; la sua scrittura cinematografica pur così giovane (forse troppo "gggiovane") si ripiega nella maniera, nella noia per lo spettatore. Un film di questo tipo, è stancante dirlo, cerca di riannodarsi al percorso tarantiniano, di "Pulp Fiction" per intendersi, ma mentre in quello l'acume, la dedizione ed il rispetto per la narrazione e per lo spettatore erano ben chiari qui si è più dalle parti del video clip e della pubblicità. Comunque la si veda è più vicino a forme produttive di breve esistenza, di fruizione immediata, basato com'è su funzioni comunicative trasparenti. Effettivamente non è un film. Non lo vuole essere. Ritchie punta al divertimento puro, al netto di ogni implicazione che sia pur minimamente tacciabile di essere "intellettuale" ma non ha la statura per fare neanche questo.
(Quasi tutti) brutti, sporchi, cattivi e simpatici in questo seguito ideale di Lock & Stock: tre uomini di colore imbranati, uno zingaro micidiale, boxeurs mastodontici, boss, ex-agenti del KGB e killer senza scrupoli in un “cane mangia cane” con un crescendo grottesco di violenza e situazioni paradossali, preso a prestito direttamente dal cinema di Tarantino e Roger Avary (Killing Zoe) ma, se possibile, ancor più disteso, disimpegnato, frenetico e spiritoso, nonostante la violenza. Ritchie (Lock & Stock) applica l’estetica da videoclip (musica in primo piano, effetti di montaggio, stop-frame e assenza di un sottotesto) ad un cartoon della Warner Bros che scimmiotta la blaxploitation e le serie Tv poliziesche degli anni settanta (con tanto di split screen), divertendosi a plasmare dei tipi caricaturali alla Trainspotting, con tanto di voce-off e sprazzi surreali (il “tuffo” nell’acqua di Pitt come quello di Ewan McGregor nel cesso). Non ha nessun merito d’esclusiva, a tratti copia spudoratamente (soprattutto da Pulp Fiction e simili: gli incontri di pistole, il colpo che parte in macchina, la sublime violenza verbale in aneddoti raffinati), ma non gli fa difetto certo l’inventiva (meglio: “il saper variare sul tema”) in brani spesso irresistibili: l’incastonarsi di flashback, incidenti stradali e colpi di scena nella sequenza migliore del film; l’idea della bookmaker glaciale; il montaggio parallelo al ralenti fra la caccia alla lepre e quella al grassone; Pitt ed il suo dialetto irlandese incomprensibile (tradotto da noi in un simil-barese). “Snatch” significa “afferra” e, in gergo, “vagina”. Ritchie cita Madonna (la sua compagna) con la canzone “Lucky star”.