TRAMA
Una borsetta rubata, un portafogli ritrovato e tutto si mette in moto…
RECENSIONI
Credeva fosse la sua vita, finiva per crederci. No, no, non finiva, no: ci credeva davvero. Lo scriveva dunque ci credeva. Non si può scrivere che ciò in cui si crede e si finisce a non credere che a quello, perché è qualcosa di tangibile.
Le parole non dette, le vie interrotte dalle balbuzie, le strade perdute tra i tentennamenti. Volevo dire... Altrimenti... Cosa? Niente. Mattoni di castelli campati per aria, pensieri che forgiano realtà inesistenti, fossi ricolmi di se, di ma, di indeterminate, sfuggenti possibilità. La mente che danza mentre la mdp volteggia, un valzer tra erbe folli, quelle che l'asfalto non riesce a soffocare, la parte in eccesso, quella che l'arida realtà non riesce a contenere. Fantasie a cui credere, a cui cedere. Idee con cui ingannarsi. Les herbes folles vaga e divaga leggiadro nell'etereo territorio del possibile, parte radente al suolo (la foresta di scarpe dei passanti) per poi decollare, si abbandona a traiettorie impossibili, precipita. Sono i titoli di testa ad inscrivere il film, da subito, in un'altra dimensione: è un'opera che ha la consistenza aerea del flusso di coscienza, il flusso di coscienza di un maestro che coltiva sviluppi incontrollati (cfr. Providence), in cui ogni fotogramma è un possibile momento generativo, ogni personaggio è autore e protagonista di un teatro mentale, demiurgo e attore, burattinaio di altri e marionetta per altri, soggetto desiderante e oggetto di desiderio: enunciatori ed enunciati si confondono, si sovrappongono, si dissolvono nel magma di un racconto che narra di Marguerite Muir e Georges Palet e che, al contempo, è frutto dei racconti, dei sogni, delle proiezioni di questi stessi protagonisti (Quando Georges descrive qualcosa è preciso), immaginazioni che germinano altre immaginazioni, scommesse e rilanci, retaggi infantili e capricci senili che prendono forma, una forma di volta in volta fumettistica, da cinema classico, pop, aulica o autoparodica, una rappresentazione debitrice di altre rappresentazioni, di storie già raccontate.
- Non importa, ci saremmo molto amati.
- Senza averci, tuttavia!
- Forse è stato meglio così, lei riprese.
- No, no. Chissà quale felicità avremmo provato!
- Oh sicuro, con un amore come il vostro!
(L’educazione sentimentale – G. Flaubert)
Resnais continua dunque per la sua strada, quella tracciata dagli ultimi film, che traspone l’attenzione dal macrocosmo della Grande Storia al microcosmo delle piccole storie, degli intrecci esistenziali di tanti individui, le casualità che governano le circostanze, le possibilità e le contraddizioni, le scelte minime che portano a svolte massimamente importanti, piccoli e grandi incidenti (L’incident è il titolo del romanzo di Christian Gailly da cui il regista prende le mosse [1]): ognuna di queste esistenze influenza le altre, il dolore di uno si proietta su chi gli è vicino, come magnificamente sintetizzato dalla sequela di mani alzate che indica come lo scombussolamento doloroso di Marguerite si converta nella sofferenza dei suoi occasionali pazienti (Mi fa male!).
Il regista parte dalla materia di cui è fatto il quotidiano, ne stilizza i tic, lascia spazio alle digressioni, ai desideri che vi aleggiano, ai fantasmi del vorrei, alle bugie e alle contraddizioni, ribalta di segno le frustrazioni (Georges sull'amore del padre per i velivoli: una moto non vola), concede all'umanità dei suoi film seconde, terze, quarte opportunità, perché al cinema qualunque cosa succeda non ci sorprende, tutto può accadere nel modo più naturale, anche che un narratore sembri onnisciente, quando non lo è affatto, ché lui per primo balbetta, si contraddice, formula ipotesi (non riesce a ricordare nemmeno il nome di una delle piazze più famose di Parigi), segue il percorso dei due protagonisti, ne descrive gli itinerari interiori, è consapevole di un pubblico che ascolta, si rivolge ad esso, sottolinea, assieme agli altri elementi che diremo, il forte carattere metafilmico che segna la pellicola.
Perché ancora una volta, Marguerite, Georges e le altre figure di questo film (che seguono pulsioni totalmente irragionevoli, come le erbacce, appunto, che spuntano dove meno te l'aspetti), più che personaggi definiti, risultano ipotesi di personaggi, indecisi sui loro destini quanto colui che ne sta manovrando le azioni; anche il loro passato è solo un accenno, non viene mai svelato; si può solo supporre cosa nasconda quello di Georges, fissato da due agenti della sicurezza, sbigottiti alluscita del negozio di orologi, privato del diritto di voto, con la costante paura di venire riconosciuto e assalito da pensieri di omicidio, ricacciati come un'ossessione che torna periodicamente a pungere. Immaginiamo soltanto ciò che ha preceduto la spettacolare comparsa (di spalle) di Marguerite, carattere chiaramente bipolare come testimonia la sua crisi e come simboleggiato dalla doppia immagine sui documenti; e lo stesso vale per il passato della moglie Suzanne, che vediamo all'inizio in un negozio di pianoforti, informazione che, come tante altre (la passione per il teatro di Josepha, il rapporto tra Palet e i suoi figli), viene fornita senza che ad essa segua alcuno sviluppo e che però dà il senso di un ulteriore filo narrativo che sarebbe potuto emergere, solo volendolo. Il tempo presente è programmaticamente incerto, perché lo stesso sviluppo narrativo è una mera eventualità, congerie di opportunità che persino gli stessi caratteri tendono a prefigurarsi (le conversazioni immaginate), laddove essi a volte sono governati dagli avvenimenti, altre cercano di determinarli con improvvisi e non sempre razionali manifestazioni di volontà.
Insomma domina fortemente il senso dell'arbitrio dell'esposizione filmica che evidenzia capricciosamente solo alcune cose di un ambito ben più ampio, il film illuminando un dettaglio, lasciando oscuro il resto e facendo ciò senza alcuna necessarietà narrativa (le digressioni sul dolore al piede o sullopportunità di usare il tagliaerbe elettrico, la mdp che si allontana dai personaggi nella scena della colazione): l'opera come sintesi di alcuni percorsi preferiti ad altri e in cui ciò che viene mostrato non fa dimenticare quanto rilevanti siano le zone d'ombra.
«Non c’è più tempo»,
diceva, non c’è
più un interstizio - un buco
magari - per dire
fuor di vergogna: «Babbo,
tutti non facciamo altro
- tutti - che ».
(Il vetrone - G. Caproni)
Finirà con il fermarsi, è scoppiato, non ne può più. E io nemmeno. Perché non ci fermiamo?
Sono le parole con cui esordisce Georges, in un film in cui la morte riveste un ruolo centrale. Per quindici euro l’uomo concede a se stesso e al proprio orologio altro tempo, un tempo da investire in bramosie da soddisfare, rivolto avanti, alla costruzione (anche se di esili edifici di carta) e non all'involuzione nel ripensamento senile.
Il ritrovamento del portafoglio di Marguerite è, per Georges, l'incipit di una narrazione sospesa tra il reale e l'ipotesi (a cui si intrecceranno le ipotesi ir-reali degli altri personaggi), plasmata (anche goffamente) secondo le sue passioni (il cinema, l'aviazione) e le sue idiosincrasie (l'avversione per il cattivo gusto che, forse, lo ucciderà), atta a soddisfare l'insoddisfatto, storia di un uomo, di una sposa e di un'amante, il capriccio misero di botte piena con moglie ubriaca, di un prato ben curato con ciuffi di erba matta. La storia possibile di un Georges che si può permettere scene madri (il finto finale), gesti e frasi apodittiche da film americano (Lei mi ama, allora), contorte sentenze filosofiche (Avevo voglia di parlare con lei di tutto, di nulla, del nulla del tutto). La speranza di un nuovo, seppur tardo, inizio. Porca puttana ne ho abbastanza di questa merda di vita, dirà quando la sua narrazione verrà fatta vacillare. Con questo divertissment surreale dall'andamento jazzistico (aggettivo a cui per una volta ha senso ricorrere) Resnais esorcizza, con divertita calma olimpica, l'incombere della morte (Io non ho paura di morire, ma di scamparla). Il finale, di ciò, è l'emblema, con quei carrelli che dopo lo schianto attraversano il cimitero, si inerpicano tra monti e ghiacciai, scivolano (in una regressione infantile? Kubrickiana?) sino ad una bambina che parla, con fanciullesca ingenuità, di reincarnazione: "Quando sarò un gatto potrò mangiare i croccantini?", l'eco della frase non a caso a risuonare sulla parola "FINE".
Les herbes folles si propone come sfrontata messa a nudo di un vuoto narrativo che dia risalto all'unica cosa che conta sul serio: il fare cinema, perché se è vero che Resnais rimane dalle parti di Cuori, è vero altresì che, da quello, quest'ultimo lavoro si differenzia per il marcato carattere autoconsapevole, quale pellicola più esibitamente teorica: innanzi tutto è evidente la struttura, che è bipartita con i due personaggi che agiscono prima in parallelo - l'incipit è programmatico: lei nel negozio di scarpe (tante scarpe), lui al negozio di orologi (tanti orologi) e poi si incrociano (la passione del volo, che segnerà il loro destino); poi il frequente ricorso alla dissolvenza che, oltre a segnare palesemente l'immagine, lascia forte la sensazione di una sospensione, il dubbio di un onirismo (il furto della borsa, il ritrovamento del portafoglio da parte di Georges e il volto di Marguerite nella vasca da bagno sono frammenti che, insieme ai carrelli sull'erba, punteggiano l'intero film: che siano le matrici da cui le altre immagini prendono vita?).
È insomma possibile immaginare Les herbes folles quale grande atto d'amore nei confronti del cinema - sotto forma di riflessione sul mezzo e sulla possibilità di utilizzarlo in libertà - condotta attraverso un'autodenuncia quasi godardiana: l'insistito ricorrere dell'insegna del cinema, il riferimento preciso a una pellicola hollywoodiana - I Ponti di Toko-ri di Robson - la cui trama viene ironicamente snocciolata in dieci secondi dal narratore, l'uso della fanfara della 20th Century Fox e la falsa chiusura in lieto Fin-e, il riavvicinamento al contrario di George all'ingresso del cinema che segna quasi una riconsegna del personaggio a un ambito immaginario preciso, i vari gradi di commedia (quasi lubitschiana), l'uso artificioso della magnifica tavolozza cromatica, la scelta di uno score hollywoodiano (di Mark Snow, già in Cuori). i due zoom "da serie B" nella scena di Marguerite dal meccanico (comunque i generi citati, direttamente o indirettamente, portano a un catalogo), la stessa scelta del cognome della protagonista [2], tutti elementi che hanno la chiara funzione di mettere a nudo il dispositivo di un film in cui è da ammirare l'anarchia controllata dell'arte di Resnais, un ottantasettenne che gira con l'entusiasmo di un ventenne, che non rinuncia a sperimentare, che, superate le fredde analisi del passato (si riguardi oggi Mon oncle d'Amerique), si dimostra un botanico felicemente, teneramente empatico con le erbacce di cui osserva l'incontrollato germogliare.
[1] Ci pare, a tal proposito, bellissima e pertinente all’analisi critica del film la dichiarazione rilasciata dallo scrittore: Resnais non filma la letteratura, compone delle immagini che ci parlano d’altro - di cosa non saprei -, ma ciò si vede, ed è questo che il cinema deve essere.
[2] I titoli di testa contestualizzano il film in un'altra dimensione.