Drammatico, Horror, Recensione

MARY REILLY

Titolo OriginaleMary Reilly
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1996
Durata118'
Sceneggiatura

TRAMA

Londra vittoriana. Una giovane donna, cameriera in casa di un medico, inizia a cogliere intorno a sé tracce inquietanti…

RECENSIONI

Stephen Frears ha la bella abitudine di rileggere i “classici”(quelle opere così a lungo masticate da apparirci, spesso, digerite, se non già espulse) mettendone in rilievo gli aspetti più nascosti, i tratti più veri. Ad esempio, nella sua versione delle “Relazioni pericolose”, attraverso una perfetta, scrupolosa adesione al testo, mostrava il lato umano dei soavi torturatori Valmont e Merteuil, sorpresi rispettivamente dalla morte e dallo smacco sociale nella vanità dei loro teatrini sadici: e non è certo casuale la presenza dei feticci Malkovich e Close (e del fido sceneggiatore Christopher Hampton) in questa rivisitazione del mito, abbondantemente inflazionato, del buon dottore e del suo orrido alter ego.
La storia, è vero, è tratta da un romanzo di Valerie Martin, ma le suggestioni di cui è impregnato il film vengono soprattutto da Dickens (un Dickens quanto mai dark, ripulito dalle incrostazioni “sentimentali” predilette da una parte della critica), per la descrizione dei bassifondi londinesi, e, perché no, Wedekind, per l’analisi della forza tellurica e misteriosamente fragile dello spirito femminile (e anche perché Lulu è di casa, negli slums visitati da un mostro assassino, poco importa se si tratti di Jack lo Squartatore o di altri). Mary, interpretata da una Julia Roberts mai così distante dall’immagine divistica che ha faticato tanto a conquistare (e che ora non mollerebbe neppure sotto tortura, c’è da scommetterci), è una ragazza semplice, facile preda del fascino maschile, tanto di quello silenzioso del dottore quanto, meno esplicitamente, di quello insinuante del viscido “assistente”: ma la purezza del suo sguardo le permette di giungere sino in fondo alla doppia anima del “mostro”, sconfiggendolo attraverso l’amore, come una novella presidentessa de Tourvel.
In una Londra in perenne eclissi (grazie al divino Rousselot), il regista costruisce, più che un giallo (qual è lo spettatore che non conosce fin dall’inizio la terribile verità sulla personalità multipla del dottore?) o un horror canonico, una tragedia erotica carica di spiriti allo stesso tempo romantici e decadenti, servita da attori mirabili, in nome dei quali ci si dimentica facilmente di alcune macchinosità narrative (dovute in parte al fatto che la lavorazione del film, tra cambiamenti di cast e sforbiciate dei produttori, è stata una delle più burrascose degli ultimi anni).

Il romanzo di Valerie Martin rilegge Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Stevenson in un’ottica femminile e sentimentale: l’adattamento cinematografico s’iscrive nella volontà dei produttori dell’epoca di riesumare i classici della letteratura dell’orrore con budget, interpreti e registi importanti (il Dracula di Coppola, il Frankenstein di Branagh). Stephen Frears prende le redini di una produzione travagliata e di lunga gestazione, riunendo la squadra di Le Relazioni Pericolose: lo sceneggiatore Christopher Hampton, che ne replica personaggi e situazioni con l’innocente che soccombe davanti a figure ambigue e malefiche, e John Malkovich e Glenn Close (in un ruolo scomodo coraggioso). Julia Roberts al posto di Michelle Pfeiffer, ancora simbolo di purezza, voce della coscienza nel dominio di corrotti e corruttibili. Anch’ella agnello sacrificale, sebbene stavolta trionfi l’amore romantico, quello che trasporta al di là delle categorie etiche: Jekyll e Hyde non sono solo l’allegoria dell’eterna lotta tra bene e male ma, previa fascinazione della turpitudine, anche le due metà platoniche di un unicum che è l’uomo, e l’Amore, al di sopra della Morale, accetterà entrambe incondizionatamente. Come Mary Reilly, infatti, temeva e non odiava il padre che la maltrattava, allo stesso modo è ora attratta dal maligno quanto dalla gentilezza, senza per questo perdere lo status virginale, perché, nella sua semplicità, comprende l’ansia di ignoto e affrancamento dalla morale comune del suo padrone. Non giustifica le sue azioni ma si fa trasportare da un sentimento più grande. Non un prodotto di genere dunque, bensì un pretesto per un pamphlet filosofico e psicologico che Frears conduce rinunciando ai movimenti di macchina, per penetrare nella nebbia e nel décor cupo (Edimburgo) dell’inconscio, dell’anima e delle sue parti oscure, in ombra. Entra con passo calmo (i lunghi silenzi iniziali) ma restituendo pagine pregnanti, dense e intense, abbracciando una materia ricca di suggestioni: gioca bene e raffinatamente con le dualità e le specularità fra i protagonisti, dissemina l’urbano di dickensiana sporcizia, di allegorici luoghi tetri (il macello, il bordello, il cimitero, l’ospedale) e sanguinolenti presagi (un’anguilla scorticata viva) che aiutano, anche, l’empatia con l’anima scissa di Jekyll. Il suo cinema, più eloquente delle parole, evoca il viaggio nella psiche tenebrosa ma poggia anche su di uno script che vive di allusioni, paralleli e riflessioni complesse anche perché mai platealmente esibite. La “trasformazione” cronenberghiana finale, con il corpo e la sua “nuova carne”, è in linea con la rilettura originale del tutto.