TRAMA
Simon Konianski viene lasciato dalla moglie, ha un figlio piccolo, è disoccupato. Ha 35 anni e non prende iniziativa. Torna quindi a vivere con il padre, un ebreo sopravvissuto ai campi di sterminio. Quando questo muore, inizia un lungo e strano viaggio per seppellirlo in un paesino dell’Ucraina.
RECENSIONI
Commedia della memoria, Simon Konianski è un film inizialmente semplice che poi si complica e diventa stratificato. Dallo schema lineare del road movie, il regista belga Micha Wald innesca una riflessione sullo storytelling che mette radici nel contemporaneo: il racconto dell'esperienza ebraica è arrivato alla terza generazione, quella dei nipoti, il bimbo vuole ascoltare le storie del nonno sulla deportazione nazista e lo sollecita a raccontarle. Al contrario di Simon, che ha una moglie spagnola con amante nero e non sopporta i racconti del padre ('Li ho sentiti mille volte', dice): il ricordo storico si è sporcato - vittima di indolenza, superficialità, incroci globalizzati -, oggi deve vincere il rischio di sbiadire e dirazzare. Il protagonista stesso è esposto: adulto colto e irresponsabile - irresponsabilità come metafora della mancata presa di coscienza sulla propria Storia -, è un ebreo che si schiera con i palestinesi (nella bellissima scena del pranzo), indossa una felpa con scritto Baghdad, lancia problematiche implicite proprio sull'attualità (per esempio: si può essere ebrei e deprecare la politica di Israele?). Simon respinge le radici, il film è il suo percorso di recupero. Non a caso i personaggi principali sono le tre età della vita (padre - figlio - nipote), con i due fratelli di Ernest a fare da coro grottesco e il bimbo determinante per l'opera di riposizionamento nella tradizione. Come costruzione della pellicola, Wald offre un'introduzione da commedia famigliare dei caratteri (che è il 'prologo al cominciamento di un molto rigido viaggio', vedi sotto) poi imposta una situazione con quattro personaggi nello spazio chiuso (Simon, il figlio, i due zii in auto) e una semplice dialettica interno-esterno con alcune interferenze (le chiamate della moglie, le incazzature di Simon); la fedeltà al registro comico è quasi totale, aderendo al racconto dell'Olocausto leggero e svagato, ma nei punti più tragici occorre tornare seri: questa la posizione etica del cineasta, che lascia la morte fuori campo ma diventa solenne nelle sequenze in campi di sterminio e cimiteri. C'è dunque un risultato pulito e lineare, anche a livello stilistico, servito da interpreti adeguati (Jonthan Zaccai regge molti stati d'animo) con i difetti di prevedibilità dei percorsi a tappe - sempre leggibile la stazione successiva - e le caratteristiche dei simboli facili come padre e figlio che portano gli occhiali (vedere il passato), ovvero hanno significato subito efficace ma non rimandano a riflessione ulteriore. In questo scenario due sono i momenti tecnicamente ed emotivamente ineccepibili: il pasto della grande famiglia ebraica che deraglia in happening (accade di tutto e la follia latente si esplicita), la ripresa nel campo di concentramento che diventa un mirabile scambio reale-surreale e si rivela passaggio di testimone intergenerazionale, dal fantasma del nonno a padre in figlio. La questione rimandi: Wald sostiene di non aver letto Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer per non farsi influenzare; l'assonanza nell'aspetto e nel contenuto (raccontare storie e tramandare il passato sono chiavi foeriane) si conferma in un omaggio palese: l'anziana ebrea che guardando la strada afferma 'Qui non è illuminato', riferendosi chiaramente al percorso della memoria ancora da compiere. Possiamo però credere al regista, che non è uguale a Foer nell'approdo: le sue conclusioni sull'esperienza ebraica sono più metodologiche, riguardano cioè la forma e il modo di narrare, appurando che la storia degli ebrei non finisce con la morte perché c'è sempre chi continua a raccontarla. Infine, siamo lontani da Allen: la comicità culturale del regista americano qui è più fisica e corporea, deviando spesso dall'oggetto del discorso (la gag della caduta dalla sedia non c'entra niente con l'ebraismo). L'unica vera discendenza è Maurice, il vecchio ebreo paranoico come degenerazione di tanti nevrotici alleniani, per ultimo David Dobel di Anything Else (ovviamente lo stesso Allen).

Ancora una volta il cinema si confronta con l’Olocausto e con il problema della memoria, ma lo fa attraverso un’ibridazione di generi che dà vita a un’opera divertente e ricca di stimoli senza mai lo scopo di proporre delle lezioncine facili e retoriche, conservando fino alla fine (e soprattutto lì) il suo ingrediente principale: il gusto di raccontare una bella storia. Centro del film sono, infatti, Simon e il mondo che lo circonda, attraversato come per cerchi concentrici: dalla famiglia (Simon è fresco di divorzio, figlio allo sbando, incapace di dare un indirizzo alla sua vita, alle prese a sua volta con un figlio a cui non sa che dire, ma che ama al punto da rapirlo per portarlo con sé in un viaggio che « sente » essere fondamentale), alla minoranza ebrea le cui rigide marche d’appartenenza Simon si diverte a prendere furiosamente in giro, dal suo tempo privo di certezze alla Storia, il passato, lo sfondo ultimo verso cui ci si dirige. Come in Ogni cosa è illuminata, con cui sembrano esserci diverse analogie (gli spunti comici, lì molto meno spinti, e la dimensione familiare), le peripezie da Bruxelles fino al paesino polacco in cui il vecchio Ernest ha chiesto di essere sepolto, diventano un viaggio nel tempo, lo stesso che sembrano compiere le architetture fino a ritornare, nei lager, allo stato primo di baracche di legno: in quella bellissima scena, tutta piani lunghi sui campi deserti e giochi di apparizioni/sparizioni dietro le schiere di caseggiati, la Storia cessa di essere tale e diventa una Pre-Storia intima, lontana distanze infinte ma che all’infinito ritorna, anzitutto, e molto prima che come motivo di riflessione sul male, sull’uomo e sul tempo, come patrimonio identitario e repertorio narrativo di quelle storie, private e diverse per ognuno, che sembrano abitate da personaggi del mito e nelle quali il bene e il male non esistono più come valori assoluti, storici, ma solo all’interno di un’ottica formativa dall’impronta fiabesca (è il caso evidente del kapò Misha che anima i giochi di Hadrien); i fantasmi che Simon incontra non lo spingono a viaggiare per ricordare qualcosa che è passato, ma per com-prendere qualcosa che è passato e che torna sempre, che scompare e sempre ricompare (ecco perché la dialettica di cui sopra), un po’ come accade in Volver che a più riprese funziona da ipotesto.
Viaggio esistenziale, dunque, ma sempre raccontato con uno sguardo pieno di ironia verso chi, come Simon, appare disarmato di fronte alla propria vita; Wald non perde mai il gusto della scena divertente e si serve della sua capacità di costruire con pochi schizzi caratteri forti, anche giocando con i luoghi comuni, in maniera tale da creare contrasti che si stemperano nella risata, in un continuo ammiccare, si vedano in particolare i titoli di coda, allo spettatore. È però anche il limite del film, prigioniero di ruoli e schemi fissi che danno adito a situazioni spesso prevedibili, come la cena ebraica, e limitano la possibilità di sequenze cinematograficamente più libere di cui il regista è peraltro capace. Molto bravi gli interpreti, bambino incluso.
