Drammatico, Sala

PERDONA E DIMENTICA

Titolo OriginaleLife During Wartime
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2009
Genere
  • 66448
Durata98'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Tre sorelle e le persone da loro amate lottano per riuscire a trovare il loro posto in un mondo imprevedibile e precario. Felicità, dove sei?

RECENSIONI


Non sono un intellettuale, non posso darvi alcuna idea.
Todd Solondz in conferenza stampa a Venezia 2009

Quasi-sequel di Happiness, come lo ha definito lo stesso Solondz, Perdona e dimentica (in originale Life during wartime) riprende e supera quello che è un film simbolo del cinema indipendente americano degli ultimi anni e ne varia stilisticamente e sostanzialmente il discorso. In Palindromes, in cui la protagonista Aviva cambiava corpo, età, razza, sesso di vicenda in vicenda, Solondz metteva in evidenza la relatività del racconto e come non avvertisse alcuna necessità di affrontare il discorso della fisonomia e della riconoscibilità dei suoi personaggi in relazione ai temi affrontati, riluttante com’è, del resto, nei confronti del cinema “a soggetto”; ce lo aveva detto in quel film che il mondo stesso è un palindromo, un gioco di specchi in cui, qualunque sia la prospettiva dalla quale si decide di guardarlo, quale che sia l’approccio, esso rimane immutabile, ed invariato resta il risultato della sua analisi (nessuno può cambiare, nessuno può migliorare: ognuno non può essere che ciò che è). Quindi non occorre costruire il presente di PeD in base al letterale passato di cui si è narrato in Happiness (il personaggio di Harvey, il pensionato che chiede la mano di Trish, proviene addirittura da Fuga dalla scuola media): a volte i riferimenti ci sono e diventano notazioni ironiche che rinviano al predecessore (è bello scoprirli, anche a posteriori, ripensandoci o riguardandosi il film del 1998), ma in generale le situazioni sono completamente rimeditate, gli stessi personaggi, dunque, sono interpretati da attori diversi (l’Allen di Philip Seymour Hoffman è adesso un giovane di colore) e invecchiati, nella finzione, in maniera diversa (dieci, cinque, sette anni etc), senza alcun dato cronologico comune, ché il loro passato solo come rievocato in questo film risulta importante (essendo questo lavoro del tutto indipendente dalla visione del capitolo precedente), un passato che tende a spadroneggiare nel tempo presente, più volte inquinandolo e che allunga le sue ombre anche sul futuro, un passato che è tacitamente richiamato dal sottotitolo del film (Una storia sul perdono e i suoi limiti - pare che Forgiveness fosse il primo titolo, in evidente assonanza con il suo predecessore -) e che si manifesta anche fantasmaticamente, presentando il conto, chiedendo di essere riletto, riconsiderato, riqualificato.


Siamo dunque nei suburbia di una città della Florida, fotografati da Ed Lachman secondo un registro neoclassico che molto richiama quello da lui proposto in Lontano dal paradiso di Todd Haynes (curiosamente nella camera del college di Billy campeggia la locandina di I’m not there, di cui Lachman è stato operatore): quindi l’immagine pastosa e ricca che emerge dagli esterni e dagli interni di queste villette algide in cui si brucia dal dolore, è un sottile richiamarsi a quel cinema degli anni d’oro che narrava, evitando qualsiasi decodifica esplicita, ma con piglio impietoso non dissimile, la borghesia americana, annichilita dal comfort e disposta, per esso, a sacrificare anche un po’ della sua libertà, legandosi mani e piedi alle convenzioni, al conformismo dittatoriale della comunità. La famiglia protagonista, martoriata da trascorsi dolorosi che variano a seconda del soggetto, è in definitiva un nucleo bombardato dalle circostanze che anela ricostruirsi nella normalità, pur nella continua dialettica con quel passato deleterio (il folgorante, sarcastico incipit non solo ricalca quello di Happiness - la scena in un ristorante e il dono a Joy di un posacenere con il suo nome inciso - Ho un déjà vu -, ma ripropone di fatto la consegna dello stesso posacenere di quella scena primaria, recuperato e acquistato su E Bay, unico caso del film in cui il passato ritorna alla lettera) e con la necessità di elaborarlo e superarlo; il tema centrale è dunque quello della colpa e del perdono (posto da Timmy al centro, non a caso, del suo discorso del Bar Mitzvah, rito che indica simbolicamente l’uscita dall’infanzia - l’archiviazione dunque di una fase trascorsa della vita, il cui potenziale lacerante, legato alla pedofilia del padre, è emerso ai suoi occhi solo adesso - e l’ingresso in età adulta) di cui ognuno deve essere, per i più svariati motivi, oggetto e soggetto: perdonare e poi dimenticare è probabilmente l’ambizione sbagliata; più credibile è dimenticare subito e, dunque, non perdonare mai: la rimozione come unico, vero balsamo alle ferite dell’animo (si dimentica e si perdona sempre per se stessi, il resto è un accidente).


Solondz, dirigendo sempre meravigliosamente i suoi attori, costruendo l’immagine con splendore icastico (PeD è girato in digitale, in alta definizione con RED camera), curando nel dettaglio il clinico dato scenografico, senza forzare i toni (il calare della temperatura emotiva, facendo emergere nei fatti la brutalità intrinseca alle situazioni è, del resto, una delle cifre riconoscibili del suo cinema), concedendosi lievi virate nel metafisico, conduce con compassato cinismo il suo girotondo esistenziale, retto da una scrittura di rara forza eversiva. Se l'autore da una parte, ancora una volta, non dimostra alcuna forma di empatia nei confronti dei personaggi che incrociano i loro percorsi - presentati con distacco anche nella loro mediocrità o nella loro sofferenza (le persone non possono farci niente se sono mostri): vittime consapevoli e non delle proprie perversioni; idealisti che ambiscono a cambiare l’Uomo; donne che ambiscono a cambiare uomo; portatori di debolezze veramente forti; interlocutori il cui linguaggio non chiarifica, ma, al contrario, rende difficile il comunicare; vivi e morti allo stesso modo torturati da un rimpianto, una sconfitta, una personale ossessione -, dall'altra, stante anche lo sguardo rivolto costantemente all’indietro, dimostra comunque un approccio alla materia meno nichilista, abbozzando persino una lirica ipotesi di commozione (la stentorea frase che chiude il film). Mentre un bambino fuori fuoco continua a ricorrere – scopriremo essere Timmy – come sogno tormentato del padre pedofilo (che alla fine muore: il suo fantasma cammina sul marciapiede opposto a quello in cui avviene l’ultimo dialogo tra Timmy e Mark, lo si intravede per qualche secondo e probabilmente comparirà a qualcuno per tormentarlo), tutto continua a involvere in un paese in cui la vera guerra non finisce mai, quella per la conquista dell’amore e della felicità (Ho commesso un grande errore/ come nel Vietnam canta Joy – il pezzo nei titoli finali è interpretato da Devendra Banhart -). Life during wartime è, insomma, una crudelissima commedia drammatica che presenta precise connotazioni politiche, riflettendo, come fa, su una perversione non tanto sessuale quanto ideologica, e che mette inevitabilmente in crisi i luoghi comuni del vivere sociale, avendo Solondz compreso che questi rimandano a situazioni consolidate non dall’esperienza, ma dall’esercizio perverso di una pubblica opinione e dunque penetrando in quest’ultima, rivoltandola implacabilmente.