TRAMA
Chicago 1931: in pieno periodo proibizionista, l’agente del Tesoro Elliott Ness, insieme ad altri tre “intoccabili” (due poliziotti e un ragioniere), dà la caccia ad Al Capone…
RECENSIONI
Una marchetta. Sicuramente è questa la prima cosa che viene in mente pensando a The Untouchables, in apparenza una battuta d’arresto nel percorso teorico-metacinematografico del “vero” De Palma. In effetti l’alto budget, il cast all-star e soprattutto la struttura classica del film scoraggiano la collocazione di The Untouchables tra le fila delle pellicole “al secondo grado”, autoreferenziali, continue allegorie del dispositivo cinematografico che vedono in Blow Out, o Raising Cain veri emblemi del depalmanesimo DOC. La cosa è vera solo in parte. E’ innegabile che Gli Intoccabili sia un film pensato, scritto e girato (splendidamente) per incontrare i favori del pubblico, ed è altrettanto innegabile che Gli Intoccabili funzioni dannatamente bene allo scopo, ma la sua struttura, la sua progressione drammatica, il suo manicheismo sonocosì classici da sollevare più di un dubbio di “autenticità”. L’impressione, ancora una volta, è quella di un “telaio filmico” che affiora e che, in questo caso, mostra i meccanismi (facendoli anche funzionare!) dell’entertainment hollywoodiano più tipico, quello che vizia il suo spettatore, lo coccola, lo protegge e lo emoziona. Il risultato è uno di quei film che non ti stanchi mai di vedere e rivedere, con battute (“sei solo chiacchiere e distintivo”) e sequenze (Al Capone che uccide il suo scagnozzo a colpi di mazza da baseball, la cultissima citazione di Ejzenstejn) “mitiche”, che reggono splendidamente ripetuti passaggi televisivi e che sono ormai entrati nell’olimpo dei veri classici “stratificati”, sempreverdi, eterni. De Palma non solo fa Cinema, lo è. Intoccabile.
Per Brian De Palma è un lavoro su commissione che diventa personale, soprattutto nei numerosi virtuosismi di soggettive, ralenti e movimenti in saliscendi della macchina da presa, nella magistrale composizione geometrica della sequenza ambientata in stazione (citazione della scalinata in La Corazzata Potemkin) e in una serie di scene debordanti (la sparatoria in ascensore, la cinepresa che segue la caduta di Nitti). Dal canto suo, il divertissement autorevole della sceneggiatura di David Mamet non è certo teso a replicare gli stilemi della serie televisiva omonima (andata in onda per la prima volta nel 1959), sempre con il realmente esistito Eliot Ness (là un Robert Stack tutto d’un pezzo, qui un Kevin Costner ‘casa e chiesa’), autore anche delle memorie da cui tutto è partito: è tipico di Mamet, almeno, il cinico tocco della menzogna in tribunale. Robert De Niro, nel ruolo di Al Capone, ingrassa come in Toro Scatenato e il regista si riunisce a lui dopo vent’anni (lo fece esordire in Oggi Sposi), riservando alla sua interpretazione le uniche tracce gangsteristiche violente e volgari che avevano caratterizzato Scarface. Il modello è piuttosto il western (la scena dell’imboscata al confine), I Magnifici Sette, vale a dire I Sette Samurai di Kurosawa, un cinema classico che ricerca coinvolgimento, epica e un empatico studio dei personaggi: emblematica, in questo senso, la sparatoria finale. La scena della doccia (Psyco), invece, è come un marchio di fabbrica di un grande estimatore di Hitchcock. Oscar a Sean Connery per l’incisiva parte di Jim Malone: ma in pochi citano Kevin Costner, nel primo e vero ruolo da protagonista, uno di quei volti e di quei modi di recitare che si danno per scontati ma fanno il film.