Drammatico, Grottesco, Recensione

FIGHT CLUB

Titolo OriginaleFight Club
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1999
Durata135'

TRAMA

Giovane impiegato, affetto da insonnia, cerca di curarla in modo anomalo. La sua vita cambia quando conosce Tyler, del quale diviene amico per la pelle. Con lui fonda il FIGHT CLUB, circolo in cui gli avventori possono sfogare la propria aggressività picchiandosi sfrenatamente. La fama del club farà di Tyler un leader carismatico. Ma non tutto è come appare…

RECENSIONI

Elevato al rango di Autore, dopo Alien 3, Se7en e The game, Fincher manifesta per la prima volta la coscienza del riconoscimento critico ottenuto. Fight Club si rivela, dunque, l'opera di un regista che sa di avere addosso gli occhi degli specialisti e che cerca di conservarne i favori, confermare il suo talento, mantenere il proprio status di neo pupillo degli osservatori. Fight Club è allora film troppo consapevole per suonare autentico, troppo volutamente ambiguo per esserlo davvero (la barbosissima querelle sul suo fascismo latente - ma il movimento capitanato da Tyler ha tutti i caratteri dell'eversione situazionista -), troppo legato alla fonte letteraria, il primo (e migliore) romanzo di Palahniuk, essendole debitore del linguaggio, di molte immagini e di tutte le idee centrali (l'io narrante che "crea" il racconto in ogni senso, gli scintillanti dialoghi). Fincher "finchereggia", ebbene sì. E cosa c'è di male? Niente, ma cominciare a destrutturarsi e parlarsi addosso già dal quarto film non è un segnale incoraggiante. Che poi un inizio folgorante (e un finale di visionaria apocalissi), la cupezza del tono, la precisione di alcuni squarci, un Norton superlativo rendano l'opera comunque ragguardevole (ma la seconda parte è sfilacciata e ridondante) non toglie nulla al discorso appena fatto: la macchina da presa lavora per un fine diverso dalla riuscita del film (l'erezione del monumento all'Autore). Attenzione al finale: la revisione della pellicola diviene d'obbligo.

Provocatorio e scioccante, ancor più nichilista che in Seven (sempre con Brad Pitt), David Fincher reitera un cinema impregnato di malesseri e fobie da fine millennio, adattando il romanzo di Chuck Palahniuk (rispettato, a parte il finale non ultraterreno), dove i motti sono "Combatti per sapere chi sei", "Le cose che possiedi alla fine ti possiedono", "Davanti alla morte tutto diventa più vero", "La nostra guerra è spirituale”, “La Grande Depressione della nostra generazione è la Vita" o, come cantavano i Mott the Hoople, “Violence is the only thing that’ll make you see sense”. Il personaggio di Pitt è un salvatore cristologico e terrorista contro l’alienante società dei consumi, alla ricerca (come quello di Norton) del dolore come catarsi che faccia sentire vivi (siamo dalle parti dell’etica autodistruttiva di Barfly). Dietro le righe, c’è anche del sarcasmo sulla morbosità del piacere voyeuristico delle generazioni eterodirette: nonostante la crudezza (solo la versione in homevideo, però, contiene tutte le sequenze tagliate per il cinema) e le tematiche serie e audaci, l’atteggiamento filosofeggiante dell’opera è mascherato dalla matrice grottesca, che diverte e inquieta attraverso l’eccentricità, come se Cronenberg (l’anarchia etica di Crash, il martoriamento della carne) incontrasse Gus Van Sant (sgradevolezza e sua sdrammatizzazione) e Brian De Palma (il doppio psicanalitico: un banale colpo di scena della serie “Siamo l’incubo di noi stessi”). Diseducativa quanto affascinante, l’elaborata “religione” del guru/Pitt è specchio di tempi dove l’essere umano è privato di una causa per vivere: con segni estremi degni di Arancia Meccanica, questa confessione ha proseliti sbeffeggiati nel loro bisogno parossistico di una guida e di regole e vorrebbe riportare alla non-società, dove vigeva la legge per la sopravvivenza e il maschio era cacciatore (e misogino). Fincher cavalca l’Io narrante, i flashback, elaborati movimenti del cine-occhio ottenuti con il computer e restituisce una delle opere più originali e oltranziste partorite dagli Stati Uniti. Fra le numerose idee meravigliose (quella del proiezionista e del fotogramma con il pene, ad esempio), va citata quella del grasso del benessere (liposuzione) usato come esplosivo contro il benessere stesso.