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ILLUSIONI PERDUTE

TRAMA

Lucien è un poeta sconosciuto nella Francia del XIX secolo che lascia la sua provincia per tentare la fortuna a Parigi. Abbandonato a se stesso in questa città, il giovane scopre ben presto i retroscena di un mondo dedicato alla legge del profitto.

RECENSIONI

Lo sappiamo che più è nobile la base letteraria più la riduzione cinematografica si rivela insidiosa: Illusioni perdute, ispirato all’omonimo romanzo di Balzac (diviso in tre sezioni, è inserito nelle Scene di vita di provincia, a sua volta inscritto nella grandiosa serie La Comédie Humaine), presenta un soggetto complesso e una galleria nutrita di personaggi che, forse, costituirebbero più facilmente materia per una serie televisiva. Il miracolo di Giannoli sta nel trarre dal ciclo romanzesco un film a suo modo popolare - quindi godibile da ogni pubblico - senza sminuire la portata delle tematiche (anzi) né rinunciare all’idea di un affresco d’epoca di ampio respiro, fatto di tanti volti e fili narrativi. Vi riesce perché ha il coraggio di ricorrere alla voce narrante, autentico tabù per tanti cineasti, ma con precedenti inattaccabili come Barry Lyndon (film a cui Illusioni perdute si ricollega per vari aspetti) e le sue successive derivazioni (Lars von Trier fa del voice over kubrickiano un modello). Giannoli non solo la usa senza nessuna remora, ma soprattutto le demanda un ruolo decisivo in una costruzione narrativa che vi si appoggia integralmente. A tale scopo reinventa il personaggio di Nathan come autore della storia e chiama Xavier Dolan a ricoprire il ruolo, scelta fatta dichiaratamente per lavorare sull’immagine del canadese - un cineasta che rappresenta l’ultima generazione, un volto emblematico dell'art house di questi anni - qui nelle vesti di un osservatore degli avvenimenti, un artista che, registrandoli, li elabora e, come un regista, li mette in scena a nostro vantaggio. Giannoli, insomma, non ha paura di sporcarsi le mani con la pagina scritta: ce lo segnala la prima scena che vede il protagonista Lucien in tipografia, alle prese con i caratteri di stampa, le dita imbrattate di inchiostro.

Nell’adattare un romanzo che, raccontando una vicenda umana, vuole restituire anche lo spirito del tempo, Giannoli riesce a calibrare le due esigenze e, combinandoli, a sintetizzare micro e macro. 
Nel micro ci racconta di Lucien, giovane poeta di provincia, che pensa di amare una nobildonna sposata e di passarla liscia; che ritiene la sua arte più forte della corruzione del mercato artistico; che crede di dominare la scena culturale laddove è totalmente incapace di individuarne le trappole. Un ingenuo che, come tutti gli outsider che credono di avere margini di manovra all’interno di sistemi di potere collaudati, è destinato a soccombere (come Redmond Barry, appunto). Al suo arrivo a Parigi la buona società lo inquadra al primo sguardo, decide subito dove può arrivare, fino a che punto si può spingere e quale sarà la sua punizione quando quel limite verrà sorpassato. Lucien, presuntuoso e naïf, pensa che l’incerta fama ottenuta possa consentirgli di scavalcare i rituali dell’aristocrazia, non comprendendo che quelle che a lui sembrano formule vuote sono i codici taciti di una società classista la cui violazione prevede pene spietate.
Lucien perdendo le sue illusioni, sconterà i molti tradimenti (quelli di sé, in primis).

Nel macro Giannoli e il suo cosceneggiatore Jacques Fieschi riescono a rendere la complessità del mondo che ruota attorno al protagonista - una dimensione sempre più schiava della rappresentazione -, a farne il limpido specchio nel quale il nostro sguardo possa riconoscere il contemporaneo: il giornalismo che vuole solo arricchire l’editore e fare cassa; la mancanza di etica di un un’informazione senza valori, impastata di opportunismo («Sei liberale, anche se non lo sai»), che crea polemiche ad arte per alimentare se stessa, potendo sempre contare sull’opinionismo dilagante (a dire: i social non inventano nulla, sono solo le nuove casse di risonanza di borbottii che esistono da sempre). E poi le bufale (oggi diremmo le fake news) e l’umiliazione implicita di un lettore mai stimolato e sempre compiaciuto; la fama come circolo masturbatorio (gente che diventa famosa dibattendo o litigando con gente divenuta famosa nello stesso modo - ricorda qualcosa? -); l’arte svilita da un mercato pensato per un pubblico addomesticato a comprare solo quello che si è deciso di rendere vendibile; il denaro come nuova aristocrazia (e le banche come nuovi gangli del potere). Eccetera eccetera (non manca l’accenno all’ambiguo ruolo della critica, tema decisivo per il Balzac letterato - la guerra con Le Figaro - e che Giannoli sicuramente sottolinea in una chiave cine-referenziale). Sono frammenti di un discorso che si rivolge con chiarezza allo spettatore perché vi riconosca la realtà nella quale vive (non mancano, in questo senso, interventi sui dialoghi volti a renderli più aderenti all’attualità), perché si renda conto che questi tempi corrotti che viviamo sono gli stessi di allora, che sono solo cambiati gli strumenti e le tecnologie, che le lettere impresse nell’inchiostro di ieri si piegavano a fini cinici come i caratteri digitali di oggi.
Tutto questo è narrato con ritmo formidabile, senza paura di sfrondare il romanzo (ci si concentra soprattutto sulla seconda parte, Un grande uomo di provincia a Parigi [1]), concentrando motivi e caratteri in determinati personaggi (ed eliminandone altri), fidando di rendere il senso delle situazioni poggiandole su figure anche solo accennate (Dauriat/ Depardieu), ma compiute in quello schizzo e sostenute da volti riconoscibili. In questo assecondando, senza appesantirla, la linea didascalica di una narrazione che non dimentica mai il suo centro, pur nel suo spaziare, e che si rivela felicemente lieve nel suo attraversare a volo di uccello l’affresco balzachiano.

[1] Nell’intervista a Positif Giannoli, a proposito del romanzo, parla di letteratura totale, operistica e intima a un tempo, facendo paralleli con autori contemporanei come Philip Roth e Bret Easton Ellis e, nel cinema, con Robert Altman.