Commedia, Recensione

IL CONCERTO

TRAMA

Primi anni Ottanta. Andrei Filipov, giovane e brillante direttore d’orchestra, si ritrova con la carriera stroncata per motivi politici. Trent’anni dopo, ha la possibilità di fare i conti con il passato.

RECENSIONI

Torna l’autore di Train de vie e prova senza successo a riproporre quel fortunato mélange di commedia e dramma, di storia e folklore, in un prodotto disordinato e freddo. Le Concert si avvale della capacità del regista, qui attiva soprattutto nelle scene di gruppo, di giocare con il grottesco, anche esagerando, come nella sequenza in cui i componenti dell’orchestra disastrata del Bolshoi passano il pomeriggio delle prove generali facendo le proprie più o meno illegali commissioni: uno squarcio folgorante ed efficacissimo sull’umanità; ma contemporaneamente è gravato da troppe cadute di sceneggiatura sia circoscritte in superficie, (le varie occasioni in cui il dialogo è utilizzato in modo scoperto per passare informazioni), sia strutturali: l’andamento sognante di Train de vie convive a fatica con il realismo sociale su cui si insiste e, soprattutto, non riesce a inserirsi entro la dinamica melò della vicenda portante, di per sé un concentrato di luoghi comuni. Sembra, cioè, che Mihaileanu abbia fatto del suo film precedente, la cui commistione di registri era, al contrario, fondata su un lavoro sottile che mirava a raggiungere l’equilibrio, un metodo che crede applicabile senza accortezze: quello del Concert è un mondo di favola, ma mai fino in fondo; e se quest’ibridazione produce senza dubbio momenti positivi, come il contrasto tra i colori fiabeschi della Mosca nostalgica e la limpidezza minimal e moderna di Parigi, nella maggior parte dei casi pare una scelta azzardata; è possibile, cioè, riconoscere in alcuni tratti della sceneggiatura le tipiche funzioni proppiane delle fiabe, e così rivediamo nell’ex Maestro divenuto bidello del Bolshoi l’Eroe in disgrazia, nella bella Mélanie Laurent la Principessa da salvare (dal suo passato?), nel vero direttore del Bolshoi il Nemico che prova in extremis a riconquistare posizioni e, persino, nelle mani fatate degli orchestranti per hobby l’Elemento magico, ma non ci si riesce a liberare dalle briglie del realismo narrativo e della ricerca del commovente (che nel finale, mettendo insieme la concitazione della prova, il brivido del successo, le immagini interpolate della mamma impazzita, supera ogni limite) che rendono tutta l’operazione più imposta che sentita intimamente.

Decisamente, Radu Mihaileanu non va per il sottile: questa parabola sull’orchestra come cosmo (in risposta al “finto cosmo” che ogni regime tenta di costruire) percuote senza pudore tutte le corde a sua disposizione, lavorando su contrapposizioni granitiche e d’effetto [la nobiltà d’animo dei protagonisti e la gretta sete di soldi e potere dei loro oppositori; la c.d. “anima russa”, arruffona e vitale, e l’algido perfezionismo parigino, incarnato dalla manager-sorvegliante Miou-Miou; la musica come linguaggio universale e come merce burocratico-finanziaria; la politica ridotta a mera pagliacciata nostalgica e l’intrattenimento che (si) riflette sulla Storia e diviene quindi strumento di riconciliazione anche politica]. Purtroppo la foga con cui Il concerto orchestra il tutto non basta a riscattare la sciatteria della scrittura (troppe le incongruenze per elencarle una ad una, ma è mai possibile che il direttore dello Châtelet non conosca la sua controparte al Bolshoi?) e il tono ostentatamente sopra le righe (alla Kusturica, o meglio, alla maniera di K.) che sciupa il potenziale di sequenze già di per sé così ricche di kitsch come quella del reclutamento del magnate con l’hobby del violoncello o quella della “fabbrica dei passaporti”. Mihaileanu riserva le sue carte migliori per il finale, giustamente incandescente, e non solo grazie alla musica di Tchaikovsky, ma perché il regista dimostra di sapere, fra una risata (nelle intenzioni) grassa e l’altra, giocare con l’attenzione dello spettatore, spingerla verso il più prevedibile degli approdi e poi, da vero prestigiatore, ricondurla sulla strada corretta, che a quel punto, e con la complicità di quella musica, non può che risultare la più giusta, la più esatta, la più “vera”. Peccato che anche in questa aerea e a tratti quasi stregata sequenza Mihaileanu non rinunci al gusto della strizzatina d’occhio, dello sberleffo innocuo, della sottolineatura gratuita quanto frusta. Il sublime resta una chimera: nonostante l’ispiratissimo cast, si vola rasoterra, i piedi ben piantati al suolo.

Mihaileanu cavalca il tema classico (anche del suo cinema) della rivalsa degli ultimi, insaporendolo con la formula che ama dell’inganno dei pezzenti che, con espedienti raffazzonati, coronano un sogno, rimediano un affronto e tornano a vivere dopo che il mondo li ha costretti al silenzio. Ma concerta in modo astuto ed eccellente anche altro: da ebreo che ama i racconti sull’antisemitismo (qui denuncia la politica di Brežnev, quando epurò le orchestre composte da israeliti), nasconde dietro la sua farsa yiddish e (ancora) lubitschiana una satira feroce della nuova Russia, terra in affanno dove i nostalgici dirigenti di partito sono costretti a comprare comparse per i loro comizi rifondisti (vedi la figura dell’impresario), dove il tempo si è fermato per tutti (la gag dell’impresario che fa la voce grossa con i francesi chiedendo cose ridicole), dove il risparmio è tutto, dove la mafia impera sposando il kitsch (il matrimonio a tema sugli antichi romani con, a seguire, una sparatoria troppo sopra le righe: rischio perenne del cinema di Mihaileanu). Da grande direttore d’orchestra, il regista infila, per tutto il film, drammatici flashback concernenti il protagonista che svelano progressivamente, con parsimonia calibrata, un retroscena fondamentale di trenta anni prima: la soluzione del mistero arriva solo durante il concerto finale (caricato di aspettative, ammantato di magia e pathos), arricchita da un colpo di scena che rende il racconto esemplare e fa compiere, sul palcoscenico, una chiusura del cerchio inattesa. Da lacrime.