TRAMA
Un professore di musica trova per caso un cane smarrito alla stazione e se ne prende cura. Il cane lo ricambierà con una fedeltà senza tempo.
RECENSIONI
Lo sceneggiatore esordiente Stephen P. Lindsey trasporta negli Stati Uniti la vera storia del cane Hachiko (1923-1935, protagonista di Hachiko Monogatari, 1987) cui, in Giappone, hanno dedicato un monumento proprio nella stazione in cui aspettava il padrone. Nel farlo, purtroppo, inventa un prologo ed un epilogo “ad altezza bambino”, dove il nipote del personaggio di Richard Gere urla ad una classe la morale di quella che lo svedese Hallström, ad immagine di (quasi) tutto il suo cinema, vuole come favola: rovinano non poco un’opera che, nonostante la superficialità stucchevole con cui dipinge gli esseri umani (fra famiglia felice e purezza varia), riesce a commuovere fino alle lacrime per l’abilità del regista nel mettersi nei panni del cane (le soggettive in bianco e nero) e nel restituire una sorta di amour fou fra due protagonisti inseparabili, dove l’uomo è incapace di imporsi sull’animale che asseconda e l’animale di separarsi dall’uomo. Hallström inscena, cioè, un rapporto ai limiti dell’ossessione malsana, presentandolo come romantico (quindi potrebbe essere un atto inconsapevole), rendendo anomalo (e più straziante) il (solito) racconto sull’animale-coraggioso-fedele. Niente male anche l’invenzione della figura dell’amico giapponese, che ammanta l’akita di componenti magiche (è il cane a scegliere il padrone e a decidere, senza compiacere nessuno). Diamo atto al regista di aver sempre sondato, pur con risultati altalenanti, legami e solitudine.
