Musical, Sala

NINE

Titolo OriginaleNine
NazioneU.S.A./Italia
Anno Produzione2009
Genere
Durata118'
Tratto dadall’omonimo musical di Kopit e Yeston
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Italia, anni 60. Guido Contini, il regista più amato della sua epoca, venerato dalla critica e dal pubblico, è alle prese con un nuovo film. Ma una crisi lo blocca.

RECENSIONI

Nein

Rob Marshall, coreografo, sbarcato tardivamente come regista al grande schermo (Chicago), ritorna, dopo Memorie di una geisha, al suo genere, quello che al cinema è in perenne pericolo di estinzione e di cui si evoca spesso la morte, il musical, adattando Nine, successo a Broadway (debutto nel 1982, con Raul Julia nel leading role), ispirato a 8 e 1\2 di Fellini. La storia è nota: il regista in crisi Guido Contini (non più Anselmi, preferendosi l’ovvia assonanza con Fellini) combatte con la sua mancanza di ispirazione, ossessionato dalle donne che gravitano attorno alla sua vita (la moglie, l’ amante, l’attrice-musa, il ricordo fantasmatico della madre…), e farà, alla fine, di questa crisi creativa, dei personaggi che l’hanno caratterizzata, la sua tormentata pellicola: Nine, per l'appunto (il titolo, diversamente dall’originale, si giustifica con l’età che Guido bambino ha in tale film autobiografico – il pezzo omonimo, presente nel musical, è stato invece tagliato da Marshall -).
Messo da parte qualsiasi improponibile parallelo col capolavoro del riminese, con Nine l’autore si appella ancora evidentemente al nume Bob Fosse (che, appassionato di Fellini, oltre a una sua personale revisione de Le notti di CabiriaSweet Charity -, il suo 8 e 1\2 lo aveva girato: lo straordinario All that jazz), fondando la sua idea di spettacolo musicale non solo sul numero di canto&danza e il suo contorno (l’apparato scenico cita a tutto spiano il maestro americano, a partire dai costumi fino agli accessori), ma anche sul corpo, da sempre oggetto/soggetto della rappresentazione fosseiana, centro nevralgico, con il corredo di un’attorialità mai in secondo piano, della rappresentazione. Pur ricorrendo a tutti gli espedienti che il suo indiscutibile mestiere gli mette a disposizione, Marshall, però, non riesce mai a dare convincente vita alla sua creazione, stante la piatta messinscena e il sostanziale fallimento del film sotto il duplice versante che lo caratterizzerebbe: in primo luogo allora, il musical è fiacco, pregiandosi di due stentati numeri coreografati decentemente (Be italian, ispirato all’episodio della Saraghina, e Cinema italiano, che molto deve all’ effervescenza della Hudson), per il resto limitandosi a una serie di pezzi cantati dai personaggi su sfondi scenografici molto curati, ma in cui la messa in scena è di rara immobilità, solo vivacizzati dal montaggio che si fonda sul parallelo tra il dato reale e quello immaginativo/filmico che traduce in quadri visionari le vicende, quadri che vanno a comporre il Nine di Contini.

In secondo luogo il dramma, che ambirebbe a rendere problematicamente la crisi del protagonista, nonostante l’intervento di penne esperte come quelle di Michael Tolkin e del compianto Minghella, è scialbo e presuntuoso: da un lato non vuole farsi semplice fil rouge che cuce assieme i momenti musicali, ambendo a un fine disegno delle situazioni e dei caratteri che le animano, dall’altro non ha mai la consistenza che lo possa riscattare dalla sua funzione di pura struttura nella quale operare coreograficamente. Nine è allora un film vuoto e in bonaccia perenne, che si fa bignamino musicale dell’immaginario felliniano (la moglie di Guido che interpreta Il vicolo, evidente riferimento a La strada; il sottolineare il dato immaginativo come cifra del cinema del protagonista; la centralità del mondo che Contini rappresenta nei suoi film come banco di confronto con la realtà italiana dell’epoca; l’insistenza dei paparazzi; la rutilanza wannabe della fauna che circonda Guido, evidente, ma sbiadito ricalco della “grande confusione” felliniana), in cui un Daniel Day-Lewis sempre bravo, ma mai così in affanno, è alle prese con quello che mi pare il peggior ruolo della sua carriera, un regista della cui crisi non riusciamo a comprendere nulla, che segue un percorso interiore che, nonostante gli squarci di voce fuori campo e le confessioni psicoanalitiche fatte alla costumista Judy Dench, non capiamo dove vada a parare, dovendoci fidare solo dell’esteriore e ostentato allestimento del suo malessere. Le altre attrici fanno del loro meglio, con una preferenza alla Cotillard, nel ruolo meglio disegnato, quello della moglie, limitandosi la Kidman e la Loren (scelta per puro dovere iconico) alla comparsata. Le canzoni, di livello discontinuo (alcune sono state scritte appositamente per il film), sono cantate dagli attori e scritte da Mauren Yeston.
Doppiaggio pessimo (e ci perdiamo Day-Lewis con accento italiano).
Neanche per sbaglio i titoli iniziali e i lunghissimi titoli di coda citano Federico Fellini (scrollata di spalle).

Era di buon auspicio che Rob Marshall, dopo la parentesi del poco convincente Memorie di una Geisha, tornasse agli umori di Chicago, sua straordinaria pellicola d’esordio: qui aleggia ancora il fantasma di Bob Fosse (anche il suo All That Jazz era ispirato al felliniano 8½), ritorna il musical ed era lecito aspettarsi surrealtà e fantasia a profusione in memoria del maestro riminese. Niente di tutto ciò (l’unico passaggio davvero felliniano: il flashback di Contini da piccolo con la prostituta di Fergie): le magnifiche allegorie del testo di Chicago sono state incidentali, dato che il regista continua a sacrificare lo spessore privilegiando la forma (figurativamente ricercata), coreografie o scenografie che siano. Aggiungendo mezzo punto all’ (per arrivare a Nine, Nove), poteva intrecciare crisi creativa, crisi di coppia e di senso ai numeri musicali che le rappresentano, arrivando a duplici letture ampliando anche la prepotente traccia sull’essere italiano che la pellicola offre. Invece si limita (inventandosi giusto il personaggio di giornalista di Kate Hudson) a restituire il musical di Broadway cui si ispira, di Arthur Kopit e Maury Yeston (nato a sua volta da una piéce di Mario Fratti), che debuttò nel 1982 ed ebbe una marea di repliche: invece che dare aria alla trama sfruttando la sua componente metacinematografica, Marshall si chiude in un unico set con la scusa dello studio di Cinecittà in cui Contini sta per girare il suo nuovo film. L’effetto musical al cinema è totale: più Cabaret che All That Jazz. Ai testi delle canzoni lascia solo la funzione da coro greco, che allunga ulteriormente la noia della crisi sentimentale già visionata: brani musicali comunque poco memorabili, per quanto simpatici nelle odi che intonano al nostro paese (“Be Italian” e “Cinema italiano”, scritta da Maury Yeston appositamente per il film). Un tripudio di dive e corpi femminili per omaggiare Fellini, di cui si tenta anche un approccio critico filmico e umano (parlando del suo rapporto con Giulietta Masina): è proprio l’interessante analisi psicologica dell’autore a salvare la pellicola.