TRAMA
“Bildungsroman” della famiglia Nigiotti/Michelucci, dalla Livorno degli anni ’70 a oggi.
RECENSIONI
Il cinema di Virzì ostenta qualità Progressive e merita Magnifiche Sorti. Almeno “secondo me” (penosa ma doverosa aggiunta, con un virgolettato che vorrebbe renderla più digeribile). Tutta la vita davanti aveva in qualche modo cristallizzato le cose belle e i limiti di un Cinema ormai unico e prezioso nel panorama italiano che, però, rischiava di soffocare sotto un accumulo di temi, personaggi, storie, legati da quella che definimmo “esigenza di concentrazione esemplificativa”. La prima cosa bella de La prima cosa bella è la sua maggiore naturalezza. Non ci sono tematiche da affrontare e sviscerare direttamente, mancano personaggi/emblema di una o più categorie (pre)definite, la galleria umana è nutrita ma non sovraffollata. Si racconta semplicemente una storia, intima, famigliare, ver(ist)a. E la si racconta benissimo, con la consueta cura formale (Virzì si chiede sempre dove piazzare la macchina da presa e come muoverla, benché non lo faccia mai pesare), con una passione e tensione umana costanti. I personaggi si arricchiscono lentamente di tridimensionalità e sfaccettature (Virzì ama e fa amare tutte le sue creature), la narrazione, pur movimentata (ma non inutilmente complicata) da andirivieni temporali, scorre via fluida per tutte le due ore di pellicola e le corde dell’emotività spettatoriale sono pizzicate e modulate con grandissima padronanza. Perché La prima cosa bella è anche – e soprattutto – una dimostrazione di forza. La storia, a uno sguardo sinottico, potrebbe sembrare costellata di eccessi e patetismi ma la sceneggiatura (i soliti Virzì e Bruni più il bravo Francesco Piccolo) si ferma sempre a un passo dal lacrimevole deteriormente inteso soffocando il dramma con una risata. Un etimologico tragi-comico, “si piange (mentr)e si ride”, ottenibile solo con una qualità di scrittura altissima, una perfetta direzione degli attori (Virzì, lo ricordiamo, è forse l’unico insieme al Muccino di Ricordati di me ad aver fatto recitare la Bellucci e qui regala alla Sandrelli un ruolo perfetto) e una mise en scéne attenta a taglio e durata dell’inquadratura (si veda la riappacificazione Pandolfi-Mastandrea, con lei in primo piano protagonista di un lungo monologo dal mood stratificato e altalenante tra, appunto, il tragico e il comico – è pienamente Valeria: esposta e sincera -, lui fuori fuoco, di spalle, sullo sfondo – è pienamente Bruno: schivo e introverso – destinati a rincontrarsi in un abbraccio previsto ma/quanto liberatorio). Il resto, è fatto di tutte le cose belle che conosciamo già (ci piace ricordare la consueta Realtà con cui Virzì dipinge il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza) e che fanno de La prima cosa bella un piccolo gioiello dove, finalmente, la ricchezza a tutti i livelli non rischia mai di diventare opulenza ma è baciata da un inedito senso della misura.
P.S. Per onestà forse lesiva della credibilità dello scrivente, poscrivo/dichiaro il mio status di Livornese (ho visto il film nel Cinema 4 Mori nel film. Quando si dice metacinema.) che ha molto apprezzato il garbo e, di nuovo, la misura con cui il film coglie la spirito (“sdrammatizzante”, per citare solo un aspetto) di tutta una città. Senza che tale spirito rischi mai di mangiarsi il film.
Adriana, l'Adriana di Io la conoscevo bene non si è mai uccisa. E' precipitata, sì, ma in una vita piccolo borghese e provinciale che le va stretta anche se in fondo non capisce bene perché dato che riesce a calzarle bene, pur nel suo maschilismo senza nerbo che comunque giocando d'astuzia (un'astuzia candida, quasi inconscia) lei riesce a padroneggiare. Adriana non ha tentato più di tanto la carriera nel mondo dello spettacolo, limitandosi a una fascia da Miss di seconda categoria assegnatale una sera d'estate in uno stabilimento balneare e a una breve (e burrascosa) comparsata su un set prestigioso. Adriana adesso si chiama Anna e vive a Livorno e col suo amore strampalato soffoca i suoi figli finché un cancro non sopraggiunge a soffocare lei, a insidiarne la bellezza, a sciuparne i tratti. Un cancro maschio probabilmente, vendicativo, che vuole avere ragione di lei, 'mamma' e 'puttana' , ma per l'ennesima volta invano.
Si è spesso fatto il nome di Antonio Pietrangeli per identificare i possibili riferimenti estetico-narrativi del cinema di Virzì, e non a torto. Ma per La prima cosa bella si potrebbero anche fare i nomi di Scola, per la capacità di raccontare fluidamente una storia intimista che si dipana in un arco di tempo piuttosto lungo, e di Monicelli, per certe unghiate sarcastiche e poco concilianti all'istituto familiare. Virzì è il miglior erede (l'unico?) di questa tradizione, lo si è detto e ridetto, ma per fortuna ne è anche un figlio non troppo premuroso. E la sua operazione sul corpo della Sandrelli (magnifica), musa di quel periodo, incarnazione di una femminilità nuova, seducente, moderna, è affettuosa ma non priva di una certa crudeltà. La madre/città è inquadrata nel suo sfiorire, nella decadenza della quale anche i figli, presunte vittime innocenti, sono parte in causa. Guardando la testa con i capelli radi della mamma dormiente e la parrucca poggiata sul tavolino accanto al letto d'ospedale, il fuggitivo Bruno fissa una brusca verità: l'aspra difficoltà di sopravvivere ai propri sogni. E quel cinema di riferimento per la prima volta fa la sua comparsa esplicita in un film di Virzì: il backstage de La moglie del prete con la coppia ormai 'hollywoodiana' Mastroianni-Loren (non un grande Risi, tra l'altro) è il teatro semifarsesco di una piccola sconfitta, i miraggi della ribalta divistica che evaporano a contatto con i più terragni e concreti drammi familiari. La commedia si fa più privata, meno aperta a graffi grotteschi che incidono sul quadro sociale (come nella filmografia precedente del regista), l'affresco di costume fa una timida comparsa per poi deviare per un'altra strada, quella della dolorosa autoanalisi familiare articolata tra tuffi nel passato e ritorni al presente. Ed è qui che Virzì suona nuovi e brucianti tasti, nella ricerca della sorgente della depressione e dell'insicurezza che paralizzano i fratelli Bruno e Valeria, in particolare il primo, fuggito a Milano ma dalla mentalità ancor più provinciale di quanto non creda, incapace di afferrare ciò che c'è stato di buono nella condotta caotica, esuberante e non allineata della madre.
Non tutto funziona alla perfezione ne La prima cosa bella. Visivamente, il film è avvolto in un dubbio giallo vintage da foto consumata dal tempo, una patina ambrata eccessivamente uniformante, e il dialogo tra musica e immagini è spesso compiuto nel segno di un'invadenza della prima nei confronti delle seconde. Il racconto poi sconta qualche incertezza di ritmo nella prima parte, un incastro tra flashback e presente che ci mette un po' a carburare e a far coincidere il personaggio della Ramazzotti con quello della Sandrelli (o viceversa). Però nel suo procedere il film acquista una potenza emotiva a tratti devastante davvero rara nel recente (e anche non così recente) cinema italiano, che trova il suo apice nella bellissima sequenza del matrimonio celebrato sul letto di morte, apice del rischioso e miracoloso equilibrismo della regia di Virzì che riesce a trasformare i segni luttuosi presenti fin dall'inizio in indefessa gioia di vivere, a sciogliere il sorriso nel pianto e viceversa, a miscelare malessere e vitalismo, ad abbracciare una calda coralità (confortata dalla solita ottima direzione degli attori) e rifiutare comunque il facile sollievo del familismo istituzionale. Nel finale Bruno si tuffa nelle acque della città-madre in mutande, come un bimbo, pronto a rinascerne tonificato, forse pronto a tagliare finalmente quel cordone ombelicale mai reciso, consapevole di quel che la madre gli ha insegnato nella sua affettuosa svagatezza, quasi suo malgrado: l'impossibilità della normalità, il primato assegnato all'amore nonostante tutto.
Il talentuoso Paolo Virzì cresce di film in film: poteva adagiarsi sugli allori della piena maturità raggiunta con le sue commedie all’italiana, corali e dal riso amaro sull’Italia contemporanea, invece spiazza con un’opera essenzialmente drammatica che scandaglia la psiche del protagonista (che si chiede: “Perché sono sempre infelice?”) attraverso vari spot sul suo vissuto con la madre. Un dramma esistenziale che, mirabilmente, cerca le risposte/cause negli avvenimenti per dedurne gli effetti e, al contempo, non prende mai la scorciatoia esaurendo il disegno con una sola accezione, negativa o positiva che sia. È così che, come nelle altre opere di Virzì, i significati si moltiplicano e le risposte non sono facili: forse la Vita è semplicemente fatta così, forse c’è di mezzo il complesso di Elettra, forse è solo il dramma di un bambino introverso con madre imbarazzante, forse c’entra la canzone del titolo di Nicola Di Bari che Bruno canta alla madre per una riconciliazione commovente (“La prima cosa bella che ho avuto sei tu”). Per stemperare il dramma, infatti, Virzì fa partire canzoni memoriali anche allegre, specchiandosi in una genitrice che, per quanto incasinata e colma di lacrime trattenute, cercava d’essere vitale e festosa per i figli. Bruno decide di farsi un bagno a Livorno anziché drogarsi: si sente libero da un peso o ha preso coscienza della propria leggerezza? Se e in quanto non è importante saperlo, Virzì fa cinema d’autore, pur non rinunciando ai suoi impagabili personaggi macchietta e/o con grandissimi cuori, pescando nell’autobiografia (sua madre era una seducente cantante, il padre era maresciallo dei carabinieri) e rielaborandola con la finzione, nel momento in cui prende come modello (cinematografico e non) Stefania Sandrelli, mentre Marco Risi interpreta il padre Dino sul set di La Moglie del Prete.