TRAMA
Tentativo di andare alle radici della crisi economica globale esaminando la tormentosa questione del prezzo pagato dall’America a causa del suo amore per il capitalismo.
RECENSIONI
Può piacere o non piacere, ma Michael Moore, oltre ad avere sdoganato il documentario rendendolo un genere non solo da tarda serata televisiva o riservato agli addetti ai lavori, ha anche il pregio di sapere raccontare, pur con la parzialità che lo contraddistingue, le grandi contraddizioni della società americana. Ha oramai completamente perso le sottigliezze, anche cinematografiche, degli esordi, al loro meglio nel pluri-premiato Bowling a Columbine, e la sua visione alterna immagini di repertorio montate ad hoc con video interviste che cedono spesso al sensazionalismo (le lacrime sono dominanti). Ma la retorica è comunque uno strumento e la capacità di Moore di utilizzarla è un talento da non liquidare in fretta. Infiammare il pubblico non è poi così facile, occorrono dati, informazioni, analisi approfondite, basi solide su cui poggiare, e Michael Moore si dimostra ancora una volta abile nel condurre lo spettatore dalla sua parte. Sicuramente imparziale, quindi, ma documentato. I suoi detrattori lo accusano di essere un manipolatore che sfrutta il dolore altrui per convogliare un punto di vista. Può essere, ma se qualche sospetto c’è in alcune interviste, il modo in cui racconta il fallimento del sistema capitalistico americano mostra una chiarezza di intenti che trova corrispondenza nella forza del risultato. L’arricchimento delle lobby del potere e l’impoverimento di chi già non svettava nella scala sociale è sotto gli occhi e nelle tasche di tutti. Moore ne fornisce una spiegazione parziale, a tratti semplicistica (i paragoni finali con altri paesi, tra cui anche l’Italia e il Giappone, fanno un po’ sorridere alla luce della realtà che si profila nel quotidiano), ma sicuramente efficace nel trasformare il suo documentario in un manifesto per smuovere il pubblico da un intorpidimento culturale e sociale. Tra gli aneddoti raccontati, non si può restare indifferenti ai giovani che hanno scontato pene improprie (e giudicate tali a posteriori) solo per arricchire i privati che gestivano un nuovo centro di detenzione; così come è la rabbia a farsi strada per le assicurazioni che le grandi multinazionali contraggono sui dipendenti a loro insaputa per poterci guadagnare, anche molto, in caso di decessi inattesi, e senza che la famiglia dei dipendenti sappia nulla o percepisca una qualche forma di indennizzo per la perdita subita. Con il suo mix di simpatia, esuberanza e ostinazione Michael Moore costruisce un manifesto pro Obama e rischia di perdere per strada chi non è dalla sua parte, anche se l’evidenza di alcuni fatti risulta difficilmente contestabile viste le prove esibite. Con passione, egocentrismo (ma quello è probabilmente nel genoma di chi fa cinema), coraggio nel fare nomi e cognomi e l’indubbia capacità di coinvolgere e indignare. Beh, di questi tempi non è davvero poco.

Capitalismo: una storia d'amore, un titolo così brillante è la migliore presentazione per un film-documentario che parte dalla crisi economica per arrivare ad una più generale riflessione sul capitalismo negli Stati Uniti.
Nonostante la grande attualità del tema e la presenza di spunti interessanti, non si tratta però del lavoro più riuscito del regista. Anche se non mancano i momenti riconducibili allo 'stile Michael Moore', la pellicola risulta in generale meno effervescente e geniale delle sue prove migliori, meno ironica e dirompente. Non che Moore non riesca a stimolare la riflessione, ma Capitalism: a love story è una versione normalizzata e - talvolta - piatta dei suoi documentari più travolgenti.
Moore procede sempre a tesi, ma la sua forza è saper trovare argomenti, prospettive e/o forme espressive che conferiscono immediatezza alle tesi stesse. Qui accade solo in alcuni casi.
È una scena Moore d.o.c. quella che ripropone un discorso alla nazione sulla crisi di un Bush jr deciso a seminare il panico, con, sullo sfondo, tragedia, distruzione e terrore che dilagano. Più avanti c'è persino un Gesù che predica le massime capitaliste al popolo.
Lo stesso dicasi per lo scoop ignoto ai più: moltissime aziende americane sono solite stipulare una polizza sulla vita del loro dipendenti di cui sono beneficiarie e sui cui relativi introiti contano programmaticamente in sede di bilancio. O per la bruciante cavalcata mediatica del pilota che salvò i passeggeri di un aereo in avaria facendolo atterrare sul fiume Hudson: celebrato come eroe, dai programmi tv al Superball, ma poco ascoltato quando al Congresso denuncia gli stipendi da fame della sua categoria. Doveva limitarsi ad impersonare l'eroe americano senza deprimere la nazione e la classe dirigente con problemi economici ed ingiustizie del sistema.
Quella creatività, nel linguaggio e nella scelta degli argomenti, che costituisce la grande forza di Moore, però, spesso latita. Al suo posto, in più di un punto, si sente invece una retorica più disturbante del lecito. Quando la telecamera indugia sulle lacrime delle famiglie rovinate, o sulla desolazione del dopo uragano, il gioco diventa ricattatorio.
Le interviste a bruciapelo alle persone comuni, che sono il marchio di fabbrica del regista, non dovrebbero mai sembrare preparate. Molti interlocutori appetibili, poi, ormai conoscono Moore e rifiutano di lasciarsi intervistare restringendo il raggio delle sue possibilità.
Il riferimento al presidente Roosvelt ed alla nuova Carta dei Diritti che non ebbe tempo di introdurre è pertinente ma, di nuovo, retorico.
Moore rimbalza comunque deciso tra gli altarini dei potenti delle banche e degli squali di Wall Street, che a braccetto con la politica hanno incarnato negli anni la faccia più spietata di un capitalismo destinato a condurre al 'grande botto'. E alla fine recinta una delle sedi simbolo di questi poteri, Wall Street, con un nastro giallo utilizzato comunemente dalla polizia ('scena del crimine').
Alcuni guizzi alla Moore quindi ci sono, l'effetto generale è però più convenzionale del previsto. Portatore di uno stile da rivendicare sempre, Moore non potrebbe ormai permettersi di fare un film soltanto lineare e condivisibile.
