Fantastico, Recensione

PARNASSUS

Titolo OriginaleThe Imaginarium of Doctor Parnassus
NazioneCanada/Francia/Gran Bretagna/U.S.A.
Anno Produzione2009
Durata122'
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Il Dr. Parnassus offre al pubblico la possibilità di vivere per qualche istante nella propria immaginazione. Ma lo spettacolo non funziona troppo bene e il diavolo è tornato a farsi vivo per prendere ciò che, secondo un antico accordo, gli spetta…

RECENSIONI

“Drammatizzare fa parte della nostra natura […], drammatizziamo una vicenda prendendo gli eventi e riorganizzandoli, prolungandoli, condensandoli, in modo da comprendere il significato personale che essi hanno per noi: per noi in quanto protagonisti del dramma individuale che riteniamo sia la nostra vita”
David Mamet, I tre usi del coltello

Difficile districarsi nella rete immaginifica di The Imaginarium of Doctor Parnassus, difficile per il clamore e il frastuono delle sue visioni, che annebbiano la struttura narrativa, che dissestano la costruzione dei personaggi, che lasciano al palo ipotesi di compattezza e armonia, in favore della pura (e inspiegabile) meraviglia. Difficile perché, ennesima meta-riflessione sullo storytelling, collide con la narrazione di una storia grande come la vita, quella di Heath Ledger e della sua morte, un evento reale che non è riuscito – per passione e dovere morale di Gilliam e crew verso l’attore prematuramente scomparso - ad affossare la produzione del film, una storia che probabilmente, incassi e sociologismo spiccio alla mano, sta contribuendo al successo (quantomeno in Italia) della pellicola, un mito collettivo che nel suo farsi ha distorto – a causa degli addetti alla costruzione di un mito come questo, i media, naturalmente – confini e intenzioni di questo Parnassus, ultima apparizione (incompiuta) di Heath Ledger sugli schermi, uscita di scena e ingresso nell’immortalità garantita dalla mummificazione cinematografica e via elencando cose semplici e banali. Al sodo, dunque: se Parnassus è il miglior Gilliam da tempo a questa parte, lo è per la visionarietà priva di freni, quelli che probabilmente erano stati imposti dalla Miramax al pur notevole I fratelli Grimm e quelli subiti da low-budget e intenzionali inquietudini perturbanti realistiche dal piccolo e difficilmente digeribile Tideland: l’inventiva che sorregge i mondi forgiati dallo specchio di Parnassus è cristallina, declina/espande/inverte luoghi comuni e trite caratteristiche dei personaggi in universi folgoranti, commutando i loro desideri in paesaggi mentali che li realizzano e al contempo li irridono; e quando si infittiscono, i retaggi Monty Python regalano squarci esilaranti e disorientanti, in cui è il gusto del nonsense a inghiottire le logiche intime dei personaggi, non unicamente lo sfavillio irresistibile della messa in sogno. Se Parnassus ha un limite è quello di negare al ritmo canonico della drammatizzazione di compiersi, restituendo un intreccio sincopato: accenti fuori luogo, accenni di una coralità mai approfondita, personaggi dalle caratteristiche frantumate e affogate nel calderone dello stupore, in piste maliose per l’occhio e dispersive per l’economia narrativa. Un tripudio confuso di forme e linee narrative in tre atti deformi: il paradosso di un film incentrato manifestamente sullo storytelling, il paradosso di Gilliam (figlio di Melies, come è prassi dire) narratore. Dai semi di un’ipotesi narrativa che la scrittura filmica ha reso criptica, incompiuta, meravigliosa (vuoi per eludere una facile fruizione spettatoriale, ricorrendo ad ellissi intenzionali di senso, vuoi per il giogo asfissiante della dirompente invenzione visiva) si deduce che non sia, per superato egocentrismo, una sola la storia che regge l’universo e che quindi Parnassus non sia una malinconica elegia del piacere del racconto al cospetto della nevrotica tabula rasa della contemporaneità: la percezione di sé è già la narrazione di ognuno, ogni persona si racconta, ogni personaggio è protagonista di un proprio immaginario; oltre lo specchio di Parnassus, a rendere dinamico il narrato, entra in gioco la dimensione della scelta, il bivio, la difficoltà che impera in ogni secondo atto che si rispetti: c’è da scegliere tra la soluzione proposta da Parnassus (Cristopher Plummer) o quella suggerita dal diavolo (Tom Waits e chi sennò); e sono soluzioni sintomatiche di modus narrandi agli antipodi: all’inizio la via di Parnassus è astiosa, ripida, richiede costanza e pazienza (un monte da scalare), quella del diavolo soddisfa vizi e vezzi, col miraggio della subitaneità (il Nick’s bar, un fast-food). Per questo “il giorno in cui nessuno ascolterà più le storie di Parnassus” è arrivato: lo dimostra l’aggressività con cui nei primi minuti del film l’ubriaco rivela i propri bisogni: “voglio baciarti”, “voglio toccarti il culo”, la violenza per un’istantanea soddisfazione, nessuna attesa, nessun bisogno di sviluppo. Il personaggio di Tony, interpretato da Heath Ledger (e Depp, Law, Farrel a delineare le sue fattezze al di là dello specchio), ispirato a Tony “The Liar” Blair, sta a metà strada: instancabile narratore e furbo oratore è viscido padrone di ogni artificio retorico (per questo le parole di Tony/Johnny Depp dedicate ai miti, alla morte che “non è per sempre”, suonano come un omaggio, sì, ma soprattutto, qualsiasi cosa ne dicano altri narratori del mito di Ledger, come lo sfoggio derisorio di una retorica stantia, abusata, condannabile), ammalia e convince convincendo se stesso, plasma il proprio ruolo e la percezione altrui per nascondere meschine aberrazioni; teatrante istrionico, capace, subdolo, patologico, incanta Parnassus, è aborrito da Nick. Se raccontare è naturale, tutto dipende da come si racconta: Tony, malefico schiavo della costanza della propria menzogna, soccombe; Parnassus, sognatore indefesso, decide di eliminare la dimensione della scelta, ferma lo sviluppo della sua ipetrofica narrazione, ritornando a una storia più intima, reale: sul finale ritroverà la figlia, il suo talento verrà indirizzato verso storie più verosimili, piccole miniature entro cui è difficile smarrirsi. Il forgiatore di mondi, soffocato dalla propria immaginazione e dal proprio donchisciottesco compito (dare forma all’interiore altrui), ritorna al respiro corto della realtà. A contatto con le parentesi entro cui è rinchiuso [Parnassus clochard prima che il titolo appaia, Parnassus clochard sul finale, a cui si aggiunge il cortocircuito/anticipazione in b/n dell’incontro con (la madre di?) Valentina (Lily Cole)] il film rivela, se la si scova, una morale, un insegnamento: “Non si può impedire ad una storia di essere raccontata”, ma si badi bene all’intensità del coinvolgimento: c’è il rischio di farsi inglobare da false verità, da storie troppo grandi, da promesse infondate, da labirinti di menzogne senza uscita. Buon senso, dunque, destrutturato e frullato in vertiginosa, confusa, contraddittoria forma post-surrealista: difetta in coerenza con l’assunto per impeto creativo eccedente, annichilisce la propria tesi sotto i colpi di una fantasia che non si pone limiti. Parnassus è Gilliam, ça va sans dire. soffre della medesima, ambiziosa, esaltante frustrazione. E’ impossibile mantenere il passo dei propri sogni.

Tutto è logica e ragione oggigiorno, scienza, progresso, leggi dell’idraulica, leggi della dinamica sociale, leggi di questo, leggi di quell’altro. Non c’è posto per i ciclopi a tre gambe dei mari del Sud, non c’è posto per alberi di cetrioli, per oceani di vino: non c’è posto per me da Le avventure del barone di Munchausen

L’immaginario di Terry Gilliam ci delizia con invenzioni immaginifiche e surreali dai tempi dei Monty Python: qui si riunisce allo sceneggiatore di Brazil e di Le Avventure del barone di Munchausen, non sfuggendo alla maledizione che inficia sempre l’esito (produttivo o al botteghino) di tutte le sue opere. Heath Ledger, infatti, con metà delle riprese ultimate (tutte quelle fuori dallo specchio), ha lasciato prematuramente questa Terra: un lutto per la Settima Arte e per il film che ha rischiato di restare incompiuto. Ma il Dr. Parnassus (uno splendido Christopher Plummer) dice che l’universo vive se qualcuno (Gilliam) racconta delle storie e il mondo del cinema ha dato una chance al regista attraverso Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell, che hanno accettato di portare a termine l’opera devolvendo i compensi alla figlia di due anni dell’attore scomparso: l’idea geniale di Gilliam è stata quella di prestare il loro volto al personaggio di Ledger nel momento in cui interagiscono “dentro lo specchio” di Alice nel Paese delle Meraviglie, dove tutto è possibile. Non solo il film è stato portato a termine ma ha attirato, con la presenza delle star, un budget maggiore, versato nelle casse dell’animazione digitale dove Gilliam dà vita a mondi meravigliosi, degni di Fellini e Méliès: quello preventivato invece, girato per le strade di Londra, sembrava più votato al fantasy fatiscente, “fatto-in-casa” e metropolitano stile La Leggenda del Re Pescatore. Il regista americano, anche qui, non smentisce le carenze di scrittura e drammaturgia, essendo sempre indeciso, nelle sue favole nere, fra coinvolgimento con pathos e parodia grottesca, fra profondità e segni superficiali (citazioni comprese, vedi il diavolo di Tom Waits alla “Aspettando Godot”), gag spente ed illuminanti, dialoghi consoni e sottotono. Ma fa parte del gioco del suo cinema che, funambolico, resta in equilibrio su registri follemente miscelati (ad un certo punto, parte anche il musical, con i poliziotti in gonnella), fischiettando una visione dell’Universo a dir poco originale (all’inizio pare una creatura di Jodorowsky fra tarocchi, viaggi nel tempo, mondo circense, simbolismi vari, diavolo e acquasanta).