TRAMA
Mikael Blomkvist è di nuovo alla guida di Millennium ed è pronto a lanciare un numero speciale su un vasto traffico di prostituzione dai paesi dell’Est. L’inchiesta si preannuncia esplosiva, ma poco prima di andare in stampa, avviene un triplice omicidio: l’attenzione di polizia e media nazionali si concentra su Lisbeth Salander.
RECENSIONI
La notizia che vorrebbe Tarantino interessato a portare sullo schermo la Trilogia Millennium non sappiamo quanto sia fondata, ma di una cosa siamo certi: da sceneggiatore formidabile quale è, saprebbe senz’altro sfruttare tutti gli spunti che la materia indubbiamente offre. Ci piacerebbe. E ci piacerebbe ancor più alla presa visione di questo secondo film tratto della trilogia, dopo Uomini che odiano le donne, che non ne risolleva in nulla le sorti, anzi ne amplifica a dismisura i difetti. Premetto che il secondo capitolo letterario è ancor migliore del primo, meno legato alla trama e molto più addossato ai personaggi che sono la vera ricchezza delle storie narrate da Larsson, ma questo non sembra aiutare lo sceneggiatore (una new entry, come il regista del resto) che, testardamente legato allo sviluppo delle vicende, cerca affannosamente di concentrarle nelle due ore di proiezione, con risultati disastrosi: sfido chiunque non abbia letto il romanzo a capire cosa diavolo accada in questo film e quali siano i collegamenti tra i vari personaggi. Non escludo che molti aspetti di questo film possano essere messi maggiormente in luce nel capitolo finale e che si debba considerare la trilogia come un blocco unico, ma al di là di questi buchi, il problema sostanziale della pellicola rimane: è vuota, meccanica, assolutamente priva di pathos, noiosa. Un completo fallimento.
Un vero peccato, diciamolo. La ragazza che giocava con il fuoco è infatti un romanzo nel quale le potenzialità di fascinazione del ciclo si dispiegano completamente, ed è in esso che la protagonista femminile appare in tutto e per tutto come una straordinaria invenzione letteraria: nelle pagine di Larsson, Lisbeth Salander è carattere controverso, che, da hacker quale è, coltiva l’illegalità, ma, nonostante ciò, si propone come una creatura con una sua etica, per quanto selettiva; nel suo muoversi ai limiti della legge, nel suo penetrare nei computer e quindi nella privacy altrui, dimostra sempre un giusto proposito e un rispetto che fanno percepire i suoi atti, per quanto tecnicamente illeciti, come “positivi”. Le informazioni che la ragazza acquisisce illegalmente le utilizza sempre per scopi di giustizia, la sua paura atavica per l’autorità e l’istituzione la porta ad agire autonomamente ma per arrivare agli stessi risultati cui tenderebbe la polizia se non fosse così miope, burocratica e gratuita nel suo esercizio del potere. Alla fine l’odio per le donne, la grande costante della trilogia, piena di uomini con problemi nell’accettare una femminilità che deraglia dal consueto ruolo, quindi più attiva, operativa, inventiva, a tratti dominante, è un atteggiamento che si manifesta innanzi tutto a livello ufficiale, generale, istituzionale. Se da un lato c’è un mercato di donne e di prostituzione in cui il maschio usa il corpo femminile per il proprio profitto, dall’altro c’è un sistema che, nel tentare di dominare questo illecito, manifesta nei fatti un pregiudizio e un’impostazione maschilista non dissimile, per quanto meno pregnante; non è un caso che Lisbeth venga protetta da Mikael e dal suo primo tutore, uomini che hanno un quadro delle situazioni più ampio, menti che operano fuori dagli schemi e pronte a valutare le questioni sul campo e non sulla carta: di tutto questo sostrato, che è materia imprescindibile per dare concretezza a quello che vediamo, il film se ne infischia bellamente, non ci dice nulla, fa dei caratteri delle semplici pedine che si muovono da un luogo all’altro e che vomitano nomi e circostanze di cui uno spettatore all’oscuro del castello tramico, non capirà l’incidenza né le relazioni con gli avvenimenti. Più ancora che nel precedente film, in questo episodio, stante la maggiore frammentazione narrativa di un romanzo strutturalmente molto interessante, si ha l’impressione di un prodotto privo di autonomia, integrativo, per iniziati, rivolto solo a chi ha già letto la trilogia e sa dunque dove collocare ogni informazione, anche sporadica e che, soprattutto, conoscendo a fondo i personaggi, è in grado di leggerne all’istante le relazioni. La trilogia (più di duemila pagine – è recente, su El Paìs, il coming out ammirativo di uno scrittore vero come Mario Vargas Llosa -) è zeppa di avvenimenti e finora la preoccupazione maggiore degli sceneggiatori sembra essere stata quella di concentrarli tutti nei film in qualche modo: non c’è nessuna seria elaborazione della materia in considerazione della diversa destinazione della storia, non c’è alcuna idea originale che renda il passaggio dalla pagina allo schermo meno traumatico. Insomma niente funziona in questo film che banalizza ogni snodo, affastella avvenimenti, fa comparire personaggi dal nulla e soprattutto annichilisce la cosa più bella del romanzo, la comunicazione via computer tra Lisbeth e Mikael. Uno sceneggiatore di razza ne avrebbe fatto un elemento spettacolare e di tensione, sbattendosene altamente dell’azione, qui invece ci si passa su con ottusa disinvoltura. Per capirci: nel romanzo Lisbeth Salander, ricercata per tre omicidi che non ha commesso, scompare agli occhi di tutti e comunica quasi magicamente con Mikael tramite un pc (da pirata informatica quale è non lo fa tramite mail, ma penetrando nell’hard disk del giornalista), questa modalità rafforza la sua immagine di essere dotato di poteri superiori: il fatto di penetrare qualsiasi banca dati le permette di perorare la causa della propria innocenza “da casa”, con eccezionali trasferte e missioni esterne a completamento; accennavo già, nella recensione del film precedente, a una costruzione del personaggio in tutto similare a quella di un supereroe di un fumetto: la sua apparenza fisica di ragazza esile e indifesa, la sua immagine ufficiale di ragazza interdetta e incapace di gestirsi, il suo atteggiamento asociale costituiscono una sorta di travestimento che nasconde la sua effettiva essenza di persona intellettualmente superdotata, perfettamente capace di autodifendersi e soprattutto di hacker di eccezionali capacità: in questo film, invece, appare come una trottola che va avanti e indietro, che fuma come una ciminiera, che possiede un appartamento fighissimo al centro di Stoccolma e che a un certo punto lo arreda con prodotti Ikea (il product placement di turno, anche nel testo). C’è di che innamorarsene.
Il cambio alla regia (Alfredson al posto di Oplev) non giova alla pellicola: pur mantenendo le qualità del capitolo cinematografico precedente rispetto al romanzo (i cui dilungamenti e prolissità, non controbilanciati da spessore, pesano meno in due ore di film che in 600 pagine), Alfredson (veterano esperto di thriller, gialli e polizieschi) ha un fare più sensazionalistico/commerciale, con esagerazioni che fanno traballare l’impalcatura di un racconto che, sulla carta, passa dal giallo di Uomini che Odiano le Donne ad un thriller più articolato e appassionante. Protagonista assoluta, questa volta, è il personaggio di angelo vendicatore di Lisbeth Salander, interpretata con efficacia da Noomi Rapace (senza di lei, la trilogia di celluloide di Millennium non avrebbe peso), simbolo di una rivalsa della donna che spiega in parte il grande appeal avuto dalla trilogia di romanzi sul pubblico femminile: per quanto “liberato” e indipendente, all’universo muliebre mancava ancora un’eroina siffatta, che supplisce al maschilismo nel Potere e alla maggiore forza fisica dell’altro sesso utilizzando le nuove tecnologie informatiche, tecniche di difesa personale e la libertà (bi)sessuale. Alfredson, sbagliando, ci tiene troppo a sottolineare quest’aspetto, risultando meno misurato, d’atmosfera e sobrio di Oplev. Esempio: mentre, per stringare il tomo alla base, corre a perdifiato (al cinema: più lunga la versione Tv) nel dare informazioni e cambiare situazioni, si ferma poi a lungo per mostrare il sesso saffico. Oppure, perdendo del tutto plausibilità, va sopra le righe nel descrivere Lisbeth come essere quasi soprannaturale, chiudendo in un grand guignol grottesco che non ha le doti per gestire. Per fortuna, è abilmente intessuto il crescendo di un plot intrigante.