TRAMA
Piccardia. Piantate in asso dalla fabbrica per cui hanno lavorato vent’anni con un ridicolo indennizzo, dieci operaie tessili decidono di mettere insieme le misere indennità per impiegare il denaro in modo socialmente utile: accoppare il padrone. A proporre l’iniziativa è la battagliera Louise, che si incarica anche di procurare il professionista adatto alla bisogna. Andato storto un primo tentativo di reclutamento, la corpulenta operaia s’imbatte casualmente in Michel, sedicente security manager e improbabile macchina da guerra. Affiatati e agguerriti, i due si mettono sulle tracce dell’introvabile padrone…
RECENSIONI
Tortuosamente ispirato all’omonima anarchica vissuta in Francia dal 1830 al 1905, Louise-Michel è il terzo lungometraggio cinematografico del duo di autori-attori comici televisivi Benoît Delépine e Gustave Kervern (i loro nomi sono legati soprattutto al programma satirico Groland, un paese immaginario, trasmesso da Canal+ da svariati anni). Le due precedenti commedie surreali Aaltra (2004) e Avida (2006) sono state presentate in concorso al Festival di Rotterdam (la prima) e fuori concorso a Cannes (la seconda), ricevendo buona accoglienza critica. Discorso analogo, ma altri festival (Roma, Londra, San Sebastian), per Louise-Michel, premiato dalla giuria del Sundance per l’Originalità e uscito nelle sale francesi il 24 dicembre 2008. A chi vi parla di questa pellicola come di una perla di comicità stralunata da non perdere assolutamente, non credete neanche un istante: trattasi dell’ennesimo caso di spudorata e ingiustificata sopravvalutazione collettiva. Forte di un prologo spassosamente lugubre (la cerimonia di cremazione più sgangherata mai vista al cinema) e di un incipit in perfetto Kaurismäki-Style (impossibile non pensare a La fiammiferaia), dopo pochi minuti Louise-Michel si affloscia clamorosamente per non risollevarsi più, fatta eccezione per qualche battuta indovinata (Michel che, baldanzoso, mostra le mani a Louise dicendole: “Vedi queste mani? Hanno spento vite!”) o qualche episodio di umorismo politicamente scorretto (il pistolotto ecologista ammannito a Michel da Mathieu Kassovitz, anche coproduttore del film). Esattamente a partire dalla spedizione di Louise alla ricerca del killer professionista (un certo Luigi che lei tenta di scovare in un paio di locali), il film di Delépine e Kervern si stabilizza a una velocità di crociera di tediosa regolarità, denunciando forti limiti di fantasia cinematografica (aspetto molto ben compreso dalla giuria del Sundance, che ha premiato il film proprio per la sua originalità). Ma qual è il problema principale di Louise-Michel? Detto molto brutalmente, un mal riposto senso della follia, che il duo di comici televisivi scambiano ora per stramberia ora per eccentricità, senza accorgersi che al cinema (Desplechin insegna) la stravaganza non si ottiene imbottendo ogni inquadratura (260 in questo caso) con “qualcosa di inatteso o sorprendente” (parole del pressbook), ma variando forme e concezioni di messa in scena. Invece, inchiodata sulla rilettura di Kaurismäki in chiave di sketch, la regia di Delépine e Kervern insegue la bizzarria a tutti i costi, persegue la strampalatezza a oltranza, incurante dell’ effetto di saturazione che ne deriva. Allora anche un semplice dialogo di prammatica tra due marinai va speziato con un bacio malandrino che, chissà per quale magico potere trasgressivo, dovrebbe introdurre una componente misteriosa nel film, “perché la cosa più importante al cinema non è la realtà ma il mistero” (ancora il pressbook). Così, paradossalmente, la fuga inorridita dal banale si fa banalità al quadrato e la ricerca inesausta del singolare degenera irrimediabilmente in monotonia, normalizzandosi senza via di scampo. Yolande Moreau (Louise) e Bouli Lanners (Michel) sono laidi al punto giusto, d’accordo, e la trasferta finale a Jersey ha il non trascurabile merito di mostrarci un’isola a 20 km dalla costa della Normandia che è un autentico paradiso fiscale (“Jersey ha approfittato della sua autonomia dal Regno Unito per divenire una piazza off-shore a tassazione agevolata”, Wikipedia), ma da qui a gabellare una piatta rimasticatura kaurismäkiana per un’opera necessaria o per un gioiello di comicità disobbediente e insubordinata ci vuole una malafede che, francamente, il sottoscritto è orgoglioso di non possedere. In chiusura un paio di suggerimenti: il primo, già raccomandato da una didascalia in apertura di film, è quello di aspettare la fine dei titoli di coda per non perdervi il cameo di Albert Dupontel nei panni di uno svitatissimo serbo. Il secondo riguarda due pellicole squisitamente kaurismäkiane che, diversamente da Louise-Michel, hanno saputo rielaborare l’estetica del cineasta finlandese secondo traiettorie autenticamente personali e originali: il compassato Schultze Gets the Blues (2003) dell’austriaco Michael Schorr (un’altra storia di privazione del lavoro) e il parodistico J'ai toujours rêvé d'être un gangster (2007) di Samuel Benchetrit. Recuperatele, fatevi del bene.

A suo modo Louise-Michel è un film perfetto: Délepine e Kervern scelgono la strada della commedia nera e la rispettano fino alle estreme conseguenze, non fermandosi mai davanti a nulla, infanticidio incluso: non c’è nessun principio morale che tenga, tutto è sottomesso alle logiche di un racconto in cui prende forma un universo finzionale autonomo e dotato di profonda coerenza interna. Nessun rimprovero si può fare ai due registi: il ritmo è serrato, la comicità intelligente, gli interpreti bravi tra cui spicca una Yolande Moreau dalla fisicità straordinaria: a lei si deve buona parte della riuscita del film. In un mondo in cui tutto va a rovescio, in cui è possibile chiudere una fabbrica da un giorno all’altro mandando per strada decine di operai, anche le strutture formali sembrano rovesciarsi: il tema della vendetta è allora messo in scena privo di ogni aspetto epico-sacrale, in maniera del tutto diversa, cioè, dall’iconografia cui il cinema ci ha abituati (ed è forse possibile cogliere un riferimento parodico nei confronti di Kill Bill ed epigoni); domina, infatti, il grottesco: la vendetta sembra non potersi concludere mai, in un’eterna ricerca sempre frustrata del Grande Capo che, nel mondo delle transazioni immediate, è spersonalizzato e introvabile. Ma l’“andare contro”, l’ essere a rovescio, va ben oltre il rapporto con le tradizioni di genere: è, piuttosto, il tratto distintivo profondo del film, radicato com’è nella stessa struttura dei personaggi: i due protagonisti sono allo stesso tempo il rovescio di sé e il doppio dell’altro perché entrambi non hanno potuto essere sé stessi; il percorso verso la vendetta sarà, allora, anche un percorso di recupero dell’Io a partire da una condizione di precarietà, identitaria, prima che lavorativa, entro cui il mondo moderno ci costringe, verso la condivisione autentica con l’Altro; percorso che, anche questo, potrà attuarsi solo “andando contro”: contro il mondo, la cui ferocia si riproduce in modo speculare nella ferocia implacabile della vendetta, come contro le logiche del racconto, in quel finale strepitoso e irriverente che demolisce, in maniera definitiva, le impalcature narrative tradizionali. Se Louise-Michel non raggiunge l’eccellenza lo si deve, però, a una sostanziale piattezza visiva: nella composizione delle inquadrature, nelle riprese, nel montaggio, Délepine e Kervern non osano, come fanno nella sceneggiatura, non rompono con la tradizione, ma se ne mantengono all’interno in un modo, pur dignitosissimo, che però stona un po’, o perlomeno, non entusiasma, rispetto al resto del progetto. In ogni caso uno dei lavori migliori visti al Festival.
