TRAMA
Luca è fidanzato con Klara ed è ossessionato dall’idea di esserne tradito. Vinto dalla sua gelosia assume un investigatore privato per farla pedinare.
RECENSIONI
Si parli allora di gelosia, se ne stenda il teorema dimostrandolo attraverso una vicenda che presenti la questione sotto varie prospettive: la gelosia come festival intimo in cui la pura idea del tradimento è regina che tormenta più della certezza della sua effettiva consumazione, come chiodo fisso al quale si appende il quadro della propria realtà interiore devastata, come virus che deforma la percezione delle cose, che rende falsamente indicativi elementi altrimenti insignificanti. Faenza, posto il tema, lo svolge nella maniera più schematica e semplicistica: abborraccia un unico personaggio, quello del detective che abdica al suo ruolo per trasformarsi in discutibile supporto psicologico che ora media ora alimenta le paranoie del cliente, con un minimo di tic riconoscibili (il leit-motiv delle scarpe, la psicoanalisi spicciola); cerca di cucirgli addosso una storia parallela che possa supportare quella principale (a dir poco stentata) vissuta da due caratteri che più banali e anonimi non si può; vi aggiunge lo strano caso di dipendenza freudiana tra i due uomini che imbastiscono un rapporto a doppia faccia in cui ciascuno rispecchia le proprie piccole ipocrisie o incertezze amorose. Si discuta a quel punto di gelosia immotivata come malattia distruttiva, di masochismo interiore come frutto paradossale dell'inaccettabile idea della fedeltà del partner, si citino a supporto Dante come Shakespeare (l'immancabile Otello), Jim Morrison come Kafka, si consideri la gelosia come un processo chimico rimediabile proprio in virtù di tale natura, il traditore come vera vittima del suo atto fedifrago che scaturisce da una disperata ricerca di felicità.
Faenza, che sul piano prettamente visivo-compositivo non è mai stato uno sprovveduto, sembra, sempre più, giocare coscientemente con l'indifendibilità del suo prodotto; pare, per questa, quasi volerne rivendicare l'originalità, consegnando questo orrendo film al suo tipico intellettualismo, quello cosciente della sua volgarità; in forza di ciò il film evita con pervicacia qualsiasi profondità di risvolto, preferendo entrare e uscire dal trash, poggiando su ciò le sue ambizioni di oggetto di analisi: scene di sesso in cui luci e ombre giocano a far patina; l'agenzia di investigazione dotata di tecniche sofisticatissime di pedinamento e controllo a distanza che neanche la C.I.A.; Luca e Denis ubriachi a vomitare banalità e prendersi a pugni; Santamaria in ospedale dopo l'incidente; la rozza dialogistica (brani a scelta); la musica che rallenta il ritmo e si interrompe al momento della defaillance sessuale oramai conclamata; Luca che pone domande sulla gelosia a un bambino, genio problematico (il cui ruolo all'interno dell'architettura del film rimane imperscrutabile, ma ha l'indiscutibile pregio di parlare poco o niente). Ci sarebbe da interrogarsi sulla natura di questo vacuo girare e analizzarlo a fondo sul serio se non fosse che pochi film, come questo, sono così spudorati (di quella spudoratezza che coglie, però, chi è fuori dai giochi) nel denunciarsi come costruiti allo scopo di istigare il basso istinto al greve dibattito che alimenta se stesso e l'attenzione nei confronti dell'opera che lo genera. Pochi film, come questo, risultano sintomatici della facilità con la quale il meccanismo commerciale si mette in moto e funziona quando è congegnato allo scopo di toccare le corde giuste di un pubblico facile a farsi solleticare, una platea debole che (non si mettessero a repentaglio gli incassi, irrinunciabili per la sopravvivenza di questo raccapricciante cinema italiano) per questo andrebbe protetta, stimolata alla visione di altro, ad altro discorrere e discettare, risollevata dall'oscenità del merdoso chiacchiericcio mediatico e non calata con energia nel suo melmoso fondo, giù, giù, fino a farla soffocare.
