TRAMA
Claire Stenwick (ex CIA) e Ray Koval (ex Servizi Segreti Britannici) si tuffano nel business dello spionaggio industriale, tra innamoramenti, doppi giochi e tripli giochetti.
RECENSIONI
La Formula di Tony Gilroy
Due su due. Ci pare questo il bilancio provvisorio di Tony Gilroy regista. A differenza di altri noti, e assai ben pagati, sceneggiatori di Hollywood (cfr. David Koepp) il passaggio dietro alla macchina da presa non ha affatto nuociuto al nostro. Michael Clayton era una pakula-ta di spirito socio-civilmente impegnato molto 70s e molto ben fatta, Duplicity, volendo, alza la posta con asintotici accenni di autorialità. Non che Gilroy inventi tecnicamente niente, sia chiaro: anche la sua opera seconda ha referenze ultraclassiche (il Lubitsch di Mancia Competente), classiche (l’Hitchcock di Caccia al ladro o Intrigo Internazionale), passé (I Soliti Sospetti et similia) unite a tratti assai contemporanei (forti omologie con gli Ocean’s di Soderbergh), ma è innegabile che anche stavolta, più che in Michael Clayton, la qualità della scrittura si imponga con esibizionistica prepotenza agli occhi e alle orecchie dello spettatore. Gilroy prende un archetipico McGuffin (la formula segreta) e ci costruisce intorno una storia “complicata” in virtù della sola distribuzione strategica del sapere diegetico. La volontà dell’istanza enunciativa di giocare con lo spettatore a colpi di incastri e andirivieni temporali – con annesso stillicidio informativo – è talmente evidente da erigere proprio la sceneggiatura a deus ex machina, da far emergere lo script stesso in superficie rompendo l’incanto dell’universo finzionale per smontare il film, mettendone il telaio a vista, mentre si cerca comunque di non incepparne i meccanismi di funzionamento né di rescindere il contratto tra opera e fruitore. Se non fosse per questa mai doma volontà di continuare a “intrattenere”, anzi, si sarebbe quasi tentati di accostare il lavoro di Gilroy agli abissi teorici di un Kaufman o – più propriamente - di un Mamet, tanto il lavoro di scrittura è esibito in quanto tale. Ma invece no. Perché Duplicity mantiene comunque la sua citata classicità di fondo, non rinuncia mai al suo status di “film con una coppia di star” né a una certa fluidità narrativa che impedisca allo spettatore di smarrirsi nel dedalo drammaturgico (a costo di qualche caduta: il poco riuscito siparietto pre-finale, che chiarisce più o meno tutto tra pleonasmi e inutili, accessori colpetti di scena in odor di “scorrettezza” nei confronti della platea pagante).
La struttura rimane così sempre in primo piano ma non “si mangia” il film, limitandosi ad intromettersi discretamente un po’ ovunque, sia che si parli di altre importanti componenti della sceneggiatura (il suo lato brillante, con lo scoppiettante dialogo del re-incontro Roberts-Owen “inspiegabilmente” ripetuto, dunque fatto scartare di livello e posizionato nel puzzle) che della messinscena registico/mostrativa, spesso corrispettivo visivo di intenzionale artificiosità (il ralenti estremo posto in apertura), esplicita dichiarazione d’intenti e “allarme” per l’attentività spettatoriale (il multi-split-screen con micro-sfasature cronologiche, piccola sineddoche “frattalica” del film tutto) o frammentazione creatrice di senso e chiarificatrice (il ricorso sempre preciso a puntuale al montaggio parallelo). Gli attori, forse leggermente – e fortunatamente - imbrigliati nell’architettura, fanno molto ma non strafanno, con la coppia Julia Roberts e Clive Owen che palesa una buona chimica senza inutili gigionismi, Tom Wilkinson (uno dei Giganti del nostro tempo, con Seymour Hoffmann e pochi altri) perfetto ma probabilmente sotto-utilizzato e il solo Paul Giamatti libero di svisare con stile.
Il Gilroy regista pare volersi dedicare alla riesumazione di schemi/modelli classici del cinema hollywoodiano: li propone con confezioni (e attori) impeccabili, ma anche fra meccanismi ed espedienti stereotipati, che impediscono all’opera di vivere di vita propria, se non in una sceneggiatura che, qui come nel precedente Michael Clayton, cerca la destrutturazione del racconto. I flashback svelano il rapporto fra le due spie protagoniste e il piano che stanno mettendo in atto ma, nel momento in cui il plot si fa prevedibile, perdono la loro funzione sorprendente e diventano un mero vezzo d’autore che non ha più nulla da svelare. Gilroy s’impegna in modo encomiabile, cura i montaggi paralleli e disegna di fino certe figure di contorno, soprattutto quelle di Tom Wilkinson e Paul Giamatti, con quest’ultimo che, ad ogni comparsata, si mangia il film (energia pura, grande lezione di recitazione). Peccato per le troppe tracce canoniche presenti, perché l’accostamento di generi, stili e registri è coraggioso e raffinato, fra film spionistico anni settanta (denunciato anche dall’uso dello split screen e di certa musica funky), commedia sofisticata anni trenta (una battaglia dei sessi che fa impallidire il tentativo di Mr. & Mrs. Smith) e trama da “colpo grosso” (fra doppi e tripli giochi) in thriller. L’ottimo soundtrack dà il ritmo ad un film spedito, con dialoghi a raffica e sceneggiatura di ferro per un meccanismo d’intrattenimento con colpo di scena finale che si voleva infallibile ma, troppo riconoscibile, diventa artificioso.