TRAMA
Seconda guerra mondiale: il capitano Charles Ryder, entrando coi suoi soldati nella tenuta decaduta di Brideshead ricorda il tempo in cui l’aveva frequentata, quale compagno di college a Oxford e amico di Sebastian Flyte, figlio dei proprietari della casa, Lord e Lady Marchmain.
RECENSIONI
Jarrold, Davies, Brock contra Sturridge, Waugh, Mortimer
Per Julian Jarrold (in Italia si è visto Becoming Jane, tentativo non disprezzabile di biografia deviata, dalle lettere della Austen) Brideshead revisited rappresenta una doppia sfida: da un lato l'incrocio con il capolavoro di Waugh, dall'altro l'inevitabile confronto con la serie televisiva del 1981 (foto). L'opera letteraria è un caposaldo, il più grosso successo commerciale di un autore che di questo riscontro unanime un po' si vergognava, seccato dalla circostanza che il favore incondizionato del pubblico gli arridesse grazie a un'opera che considerava stilisticamente discutibile; lo scrittore tanto poco era convinto della novella che, undici anni dopo la sua prima pubblicazione (che risaliva al 1948), si decise a rivederla e correggerla “per il linguaggio ornato e retorico che ora a pancia piena mi ripugna". La serie del 1981, vista anche in Italia, diretta da Charles Sturridge, sceneggiata da John Mortimer e interpretata da Jeremy Irons e Anthony Andrews, è ancora oggi un insuperato esempio di adattamento televisivo, un parametro, una meraviglia baciata da una fortuna critica senza eguali e ricoperta, giustamente, di ogni sorta di premio. Per quel che concerne la presente riduzione, va subito dato merito agli sceneggiatori (un primo adattamento di Andrew Davies è stato rimaneggiato da Jeremy Brock) di essere riusciti a sintetizzare l'articolata materia del romanzo in una durata contenuta senza sacrificarne la complessità, anzi operando, per comodità espositiva e per chiarezza necessaria, stante la concentrazione della sostanza narrativa, una serie di cambiamenti nelle vicende che, lungi dall'essere delle libertà gratuite prese sul testo waughiano, si rivelano abili stratagemmi per mantenere intatta la problematicità dell'intreccio senza doverne ossequiare tutti i risvolti; bando ai purismi: funziona la modalità scelta per limitare o sopprimere le molteplici sottotrame, che rendevano l'ordito irriproducibile per il grande schermo; funziona l'idea di incorniciare la vicenda centrale (che è un lungo flashback) non in uno, come nel romanzo - che affida all'attualità prologo ed epilogo -, ma in due livelli temporali (quello al presente, di Brideshead durante la guerra, appunto, e l'ulteriore, più prossimo flashback dell'incontro tra Julia e Charles sulla nave in cui si celebra il trionfo pittorico di quest'ultimo e cui si riconnette tutta la parte finale); funziona l'idea di anticipare l'incontro sentimentale tra Julia e Charles a Venezia (nel romanzo la donna non si recava dal padre nel ritiro veneziano e, dopo essersi studiati a distanza per anni, i due avevano la loro epifania amorosa solo sulla nave, quando Sebastian risultava già fuori gioco) e di collocare, di conseguenza, in maniera cronologicamente e contestualmente differente tutta una serie di episodi (e far della vicenda dei tre personaggi principali una sorta di triangolo); funziona l'idea di lasciare la tenuta di Brideshead sullo sfondo, ma nello stesso tempo mantenerne il ruolo centrale come simbolo di una classe, di uno spirito, di una condizione psicologica.
The Big House
Brideshead è, naturalmente, tutta l'aristocrazia inglese al tramonto, in un momento storico che, rappresentando la vigilia della sua decadenza, ha le tonalità crepuscolari che affascinano da sempre la macchina da presa: il contesto congiunturale viene reso come scenario sì crudele, ma ammantato dal raffinato eloquio di coloro che lo abitano, dall'impeccabile ritualistica che ne sovrintende ogni atto, dalla forma sacralizzata in sostanza, dall'onnipresenza di servitori che, in alcuni casi, non rispondevano ad altra utilità se non quella di fungere da dimostrazioni viventi di un prestigio altrimenti in discussione (il licenziamento dei famigli era l'inizio della fine). Un contesto, quello della big house, che, del resto, ritroviamo come sfondo effettivo od evocato in tappe fondamentali della British Reinessance (Maurice di James Ivory, Another Contry di Marek Kanevska, Il matrimonio di Lady Brenda, ancora di Sturridge, ancora da Waugh - A handful of dust - e molte altre ancora) e più di recente [1] nella sottostimata commedia di Stephen Elliott Un matrimonio all'inglese (Easy virtue, da Noel Coward - che della parlerie salottiera dell'epoca fu fulgente cantore - già adattato per lo schermo nel 1928 da Hitchcock) che dietro l'andamento brillante nascondeva le pieghe dolorose della tragedia da venire (si pensi alle riflessioni finali della nobildonna impersonata da Kristin Scott Thomas) e soprattutto l'ingiustamente dimenticato (e come nessun altro definitivo sull'argomento, fin dal titolo) Last september di Deborah Warner (tratto dal romanzo di Elizabeth Bowen). È una società all'ultima spiaggia, chiusa in se stessa, quella rappresentata in questi film, per la quale il mondo esterno è ancora un accidente eventuale: da un lato imbalsamata nelle sue false certezze (che si sgretoleranno con la crisi economica) e dall'altro brutalmente rischiarata dai lampi di coscienza e malessere delle generazioni più giovani che, a volte nella cornice rassicurante dei college, incrociano la realtà, la consapevolezza, la nuova letteratura, preparandosi al duro mondo in arrivo, vedendone le crepe. Comune a tutti questi titoli la rappresentazione del rigido codice comportamentale che ingabbia i personaggi in recinti ipocriti, ma solidissimi nel delineare i campi d'azione delle classi sociali in tutte le loro rigorosissime gradazioni: non fa eccezione questa vicenda che trova la sua vittima sacrificale in Sebastian Flyte.
Sebastian e Charles contra mundum
Che Sebastian sia gay questo film ce lo mostra con chiarezza, laddove il romanzo ce lo fa capire senza mai affermarlo, facendolo dedurre al lettore per argomentum a contrario (l'equazione cattolici-sodomiti che fa il cugino Jasper – nel film l'epiteto viene rivolto, direttamente e senza equivoci, all'accoppiata Sebastian/Anthony Blanche -; la sua amicizia con l'omosessuale dichiarato Blanche, per l'appunto, che vela una più che presunta relazione carnale; lo stesso evocativo nome del personaggio e altri sparsi elementi). La relazione che si instaura con Charles ha evidentemente un peso diverso per i due: per il giovane borghese la fascinazione deriva anche da attrattive sociali, di condizione, di status, tanto da trovare poi in Julia un più consono, conveniente sbocco; in Sebastian giocano fattori simili e contrari (la famiglia Ryder, ridotta a un padre indifferente, è il contrario della sua; lo spirito artistico dell'amico lo entusiasma come la sua libertà dalle convenzioni e il suo ateismo) e viene suggellata, in questa versione, da un bacio che, per quanto casto e bagnato dall'alcool, Waugh, che sfoderò una studiatissima laconicità nel delineare la relazione tra i due, avrebbe trovato deplorevole [2]. Il legame scomodo dei due amici palesa i nodi del film: la relazione impossibile tra una middle class arrivista e un'aristocrazia oramai al declino, il potere castrante della famiglia istituzionale, le categoriche pressioni derivanti dalla religione; l'autodistruzione di Sebastian passa attraverso queste stazioni, le mette drammaticamente in scena: il giovane ne subisce il martirio, è un agnello sacrificale sull'ara del Conformismo (e il suo esilio, solo apparentemente volontario, in terra d'Africa, che si conclude con la morte, suona, waughianamente, come una condanna implacabile dell'anello debole, che si consuma lontano dal cuore nero di quella società, al pari della dispersione di Tony Last nella giungla sudamericana, nel finale beffardo di A handful of dust). Sebastian è insomma l'emblema della cecità indotta da una classe, che ancora per poco farà finta di non vedere la sua rovina, un uomo fatto, ma ancora infatuato della sua infanzia (la sua tata, il suo orsacchiotto), che si permette e a cui si permette di ignorare la realtà, salvo scontrarvisi all'improvviso, all'improvviso ritrovandosene travolto, senza alcuna corazza se non quella fallace fatta di perbenismo e religiosità disegnatagli da una madre virago e manipolatrice, principale artefice del suo prematuro appassire. La prima apparizione del personaggio (il vomito in camera di Charles) è in qualche modo la sua presentazione: un ragazzo infantile e indeciso che cerca complicità e affetto lontano da una famiglia che fagocita tutto e dalle cui grinfie cerca invano di tenere lontano il nuovo amico che, invece, da essa viene subito arruolato a sorveglianza della moralità del rampollo. Charles (un aderente Matthew Goode), da parte sua, è avvinto dallo splendore apparente della vita a Brideshead, una dimora che si veste di mitologia: essa è l'Arcadia, è l’emblema di un'età dell'oro, è puro edonismo pagano in contrasto con lo spirito cattolico cristiano che ostentano coloro che la abitano, una religione che si insinua dappertutto e che controlla tutto, la cui ritualistica pare sovrastrutturale superstizione a sostegno di coscienze deboli, veleno sottile che nutre l'onnipresente senso di colpa. È per la suadenza di questo mito e per un'ambizione non del tutto cosciente che il giovane accetta le lusinghe di Lady Marchmain, entrando nel mondo dal quale Sebastian cerca di sottrarsi, salvo cambiare atteggiamento in seguito, pervenendo a una visione più critica: l'incontro con Lord Marchmain, il sempre magnifico Michael Gambon [3], sfuggito all'artiglio educato della sua sposa, sarà la prima chiave di volta per vedere i frequentatori di Brideshead sotto una nuova luce, ma senza perdere di vista l'allettante cornice nella quale essi agiscono. La ricorrenza di Brideshead nella vita di Charles segna un altro importante tema dell'opera: il ricordo, i ritorni, il riemergere mentale e fisico del passato, la sua rilettura col corollario obbligato di rimpianti, le matematiche valutazioni a posteriori, la coscienza nuova degli errori fatti, delle ingenuità di cui si è stati artefici e vittime: anche in questo caso la sceneggiatura del film non sbaglia e sceglie di utilizzare la voce fuori campo di Ryder per il solo livello temporale dell'attualità (la seconda guerra mondiale) che segna l'ennesimo ritrovamento della tenuta che non ha retto allo scontro tra tradizione e cambiamenti sociali ineluttabili: il Tempo ha decretato il superamento di un'aristocrazia che aveva resistito per secoli e che conosce, alla fine, il castigo della Storia; la voce narrante di Charles, dunque, viene utilizzata, funzionalmente, per tracciare il consuntivo mentale sull'esperienza trascorsa e per sancire la crucialità, consapevolizzata fuori tempo massimo, del suo rapporto con Sebastian. Un complesso di tematiche, quelle del film, assolutamente attuali e sintomatiche [4], la cui problematicità intrinseca, che rivela anche la trasfigurata contraddittorietà dei codici moralistici e religiosi in gioco, resiste alla eleganza affettata dell'impianto visivo assemblato da Jarrold. Questo rimane il difetto principale del film: la confezione è di gran lusso (Brideshead anche stavolta, come nel caso della serie televisiva, è Castle Howard nello Yorkshire), ma non disdegna la patinatura; la costruzione dell'immagine ha momenti ricercati, ma patisce oltremodo il ricamo eccessivo (i ralenti sottolineati, gli enfatici movimenti di macchina) e l'algore di fondo; la sceneggiatura è strutturalmente ben concepita, ma cade sul dettaglio, trascurando troppo le sfumature dei personaggi, complice una direzione attoriale che sceglie di inchiodare tutti i bravissimi interpreti al mezzo tono, lasciando al solo Ben Whishaw l'agio di mettersi debitamente in evidenza. Il suo Sebastian è magnetico, la cosa migliore dell'opera: Whishaw è tutto fragilità e dolenza, non sbaglia un'espressione né un tono, il suo sguardo perso è sempre empaticamente tragico, il suo corpo attoriale si impregna della malata decadenza del personaggio senza mai indulgervi più del dovuto, la sua declamazione è perfetta (parlo della versione originale, il doppiaggio di questo film è deprecabile). Costui è un attore di razza.
[1] Lo stesso Gosford Park di Altman (scritto da Julian Fellowes, uno che ne sa), per quanto si presenti con le apparenze del giallo, rientra a pieno titolo (Inghilterra, anni 30, la nobile magione prima del Cataclisma piena di ricchi, quasi ricchi, quasi poveri, prossimi alla rovina, oltre a tutte le declinazioni delle classi subalterne) in questa cerchia. La letteratura di ieri ed oggi è naturalmente la fonte prima di queste opere, alle quali vanno aggiunti, in una chiave essenzialmente umoristica, le leggerezze romanzate di P.G. Wodehouse e, in quelle del più perfido sarcasmo, i capolavori malefici di Ivy Compton-Burnett, autrice geniale di crudeli gioielli letterari, sempre più introvabili in edizione italiana. Più recentemente: Le buone maniere (1981), una delle ultime creazioni della veterana Molly Keane (molto bridesheadiano, se mi si consente il dire) e il già citato Julian Fellowes di Snob (2003).
[2] Dissento dalle dichiarazioni rilasciate in merito dal regista per il quale la serie televisiva non osava niente sul punto, per ragioni legate alla scabrosità del tema. L'adattamento di Sir John Mortimer del 1981 voleva essere (e tale risultava) fedelissimo al romanzo, ne rispettava tutti i passaggi, non c'era microepisodio che non fosse riportato (le undici ore totali lo permettevano e quasi lo richiedevano, stante il fatto che non c'è un momento del testo che valesse la pena trascurare) risultando una filologica versione filmata del romanzo, con tanto di voce narrante di Charles fuori campo a tenere il filo delle vicende (lo splendido timbro di Irons, la gravità del suo fraseggio, sono uno degli elementi che rendono la serie imperdibile, a mio avviso). L'evasività di Mortimer sulla questione, insomma, era la perfetta riproduzione di quella dell'autore del libro, né più né meno, e dimostrazione ne sia che lo sceneggiatore (e Sturridge con lui) non manifesta alcuna esitazione nel rappresentare, per quello che sono, le situazioni e i personaggi palesemente omosessuali presenti nel volume. Waugh è laconico sul punto per scelta, ribadisco: non vuole chiarire di che natura è il rapporto tra Charles e Sebastian, probabilmente per non ridurlo allo standard abusato di uno scontato legame sentimental-sessuale. E Mortimer, coerentemente, segue il testo, senza forzarlo, anche su questo punto. A volerla dire tutta, e volendo smentire Jarrold ancora più recisamente: la versione 2008 decritterà pure il lato gay della storia, ma, anticipando di molto il fuoco passionale di Charles per Julia, risulta in definitiva molto più pacatamente spostata sul piano “etero”, limitando, con innocenza, a un bacio la questione “omo”. La strategica virata della sceneggiatura, rispetto al testo di Waugh, nel dialogo tra Cara (Greta Scacchi) e Charles, conferma questa impressione: nel film si vuole suggerire l'idea che mentre per Charles la relazione col compagno è una normale fase transitoria legata alla giovane età, per Sebastian ha invece ben altra portata. Questa è una scelta, una lettura, una concepibile (e lecitissima) forzatura, insomma una possibilità: nel romanzo, come nella serie televisiva, le cose sono decisamente meno nette, molto più ambigue.
[3] I due vecchi padri dei protagonisti, Edward Ryder e Lord Marchmain, nella serie tv di Sturridge erano interpretati rispettivamente da John Gieguld e Laurence Olivier. La Tv inglese, la migliore d'Europa anche nei suoi momenti peggiori, non si è mai accontentata di seconde scelte.
[4] Sintomatiche ancor di più allora, tanto da condurre Waugh a prendere le distanze dai suoi personaggi (e da quell’Io Narrante) e dal gioco di inevitabili immedesimazioni e riconoscimenti che, con molta probabilità, il romanzo avrebbe facilmente scatenato, attraverso la folgorante frase in esergo:
Io non sono io; tu non sei lui né lei; loro non sono loro.