Drammatico, Thriller

LA TERRAZZA SUL LAGO

Titolo OriginaleLakeview Terrace
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2008
Durata110'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Chris e Lisa Mattson si sono appena trasferiti a Los Angeles nella casa dei loro sogni. L’idillio avrà breve durata a causa del vicino Abel Turner, un poliziotto scorbutico e violento che renderà la loro vita un inferno.

RECENSIONI

L’erba del vicino si tinge di nero

Dopo l'infelice Il prescelto il discontinuo Neil LaBute resta in zona thriller ma torna a scandagliare i rapporti affettivi con lucido cinismo e un tantino di misoginia, suoi tratti distintivi fin dal felice debutto con Nella società degli uomini. Al centro del racconto una coppia interrazziale, con un lui bianco e una lei nera, sposati di fresco e in trasloco in un quartiere residenziale di Los Angeles, il Lakeview Terrace del titolo originale, disastrosamente tradotto alla lettera in La terrazza sul lago (peccato che nel film di un lago non ci sia traccia). I due devono vedersela con un vicino tutt'altro che amichevole, un poliziotto nero dai modi bruschi prossimo alla pensione. Il soggetto non sembra offrire particolari spunti di interesse. Siamo dalle parti di Uno sconosciuto alla porta di John Schlesinger e Abuso di potere di Jonathan Kaplan (ma anche de L'uomo della porta accanto di Petra Haffter), con un vicino di casa che diventa sempre più folle e pericoloso. LaBute non evita i cliché del genere "vicino/inquilino pazzo", impostando una progressione assai classica che parte da piccoli fastidi e ripicche reciproche fino a giungere al thriller. Peccato ci arrivi fuori tempo limite e, tra l'altro, con l'onere di dover risolvere rapidamente tutti i conflitti impostati in precedenza. Al di là di questo, però, l'happy end in pieno stile hollywoodiano si limita a mettere la parola "fine" al film, ma lascia tutt'altro che conciliati nei confronti della coppia protagonista. Saranno davvero felici e coesi? Riusciranno a sopravvivere affettivamente a un bambino non voluto da entrambi e a suoceri invadenti e poco amorevoli? Basterà un cambio di indirizzo per ritrovare ritmi quotidiani allineati? LaBute insinua il dubbio e unisce la prevedibile deriva del "cattivo", comunque efficace (il confronto alla festa in giardino tra il vicino e gli amici della coppia è un vero spasso), con più di un'ombra sul quieto vivere, sulla quotidianità, sul futuro a due dei protagonisti. Nel sottotesto è interessante, anche se un po' troppo urlato, il razzismo al contrario di cui il bianco della coppia finisce per essere vittima senza che il suo progressismo riesca ad aprirsi un varco nel nemico attraverso il dialogo. Così come non lascia indifferenti la violenza sotterranea, e ogni tanto in scena, che si respira per le strade di Los Angeles, sempre pronte a tingersi di sangue per motivi apparentemente banali. L'approfondimento delle psicologie è nelle corde di LaBute che suggerisce, ogni tanto sottolinea, sicuramente non spiazza, ma conduce con mano sicura e tempi tutt'altro che frenetici, assolutamente adatti per entrare appieno nel sentire dei poco simpatici personaggi, verso una vittoria del Bene sul Male. Dietro la facciata di sorrisi e abbracci e baci, però, il grigio avanza.

Prima di tutto: per una volta, i distributori italiani “dovevano” lasciare il titolo originale, perché Lakeview Terrace è una località e la traduzione letterale dimentica che non c’è nessun lago nei fotogrammi. Dal canto suo, Neil LaBute continua ad adoperarsi in pellicole in cui sembra far volare il genere su “terrazze” più alte per poi sprofondare nello stereotipo quando meno te lo augureresti. Di thriller psicologici come questo, che sia un vicino di casa o uno sconosciuto dentro, comunque giocati su un crescendo che dai piccoli dispetti-sospetti arriva all’esplosione troppista finale, ne abbiamo visti parecchi, ma piace il mood calmo che il regista imprime, aiutato dalle musiche avvolgenti per chitarra di Jeff e Mychael Danna e da quest’idea allegorica degli incendi che si avvicinano (annunciati per tutta la durata dai media in sottofondo). Tutto al servizio, però, di un finale con psico-protagonista Maniac Cop che spara all’impazzata: c’era tensione prima, in quanto subire le angherie, le allusioni maligne di un uomo di potere che ne abusa fa certamente paura ed era convincente anche la sottotraccia politica, dove il microcosmo rappresenta il paradosso dell’inganno istituzionale che istiga la violenza e si fa ringraziare per averla usata (il personaggio di Samuel L Jackson è un fan di Bush e canzona il vicino democratico pauroso e gentile; la zona del titolo è anche quella del nero Rodney King percosso dai poliziotti nel 1991). Poi ci sono le tematiche del razzismo al contrario (l’orgoglio nero che vessa le mozzarelle) e il percorso di formazione di un neo-padre che deve imparare a proteggere la propria famiglia. Perché rovinare tutto con un paio di scene conclusive che rincorrono la platealità e non sono credibili?