Drammatico, Recensione

THE BURNING PLAIN

TRAMA

Un camper brucia nella pianura. Una giovane donna che lavora in un ristorante fa i conti col suo passato. In un campo di sorgo una ragazza messicana corre verso l’aereo del padre che si schianta al suolo. Indovina dov’è il nesso.

RECENSIONI

Conclusosi il fortunato sodalizio con Inarritu, lo sceneggiatore Guillermo Arriaga debutta dietro la macchina da presa firmando un film che si presenta come definitiva messa a nudo del suo metodo creativo: la costruzione artificiosa delle agnizioni (artificiosa perché ottenuta attraverso uno strategico mescolamento delle carte della cronologia e uno studiato disordine narrativo) si sviluppa secondo un mosaico di cui vediamo le tessere una per volta; solo alla fine, accostandole le une alle altre, esse, di per sé indefinite e monche, trovano la corretta collocazione e finiscono col rendere il quadro delle vicende narrate perfettamente leggibile. Se questo schema a volte ha funzionato (nel film di Tommy Lee Jones Le tre sepolture, per esempio: il più solido sul piano del racconto tra quelli visti finora e che si pregia di un'efficace prova di regia) in questo caso, stante anche la pochezza degli assunti di partenza, la questione sembra ridursi alla semplice illustrazione di un meccanismo di scrittura e dei suoi limiti: intendo dire che The burning plain se può essere preso teoricamente come sessione dimostrativa di quello che Maurizio Porro, con sublime intuizione, ha definito il 'cinema sudoku' del Nostro, dall'altra parte si pone anche come chiara dimostrazione che la soluzione prediletta dallo sceneggiatore-regista risulta fondamentalmente un espediente; The burning plain ci dice insomma che il metodo Arriaga non è così forte da bastare a se stesso, necessita sempre di una sapiente applicazione cinematografica: in questo caso la mancanza di una regia e di un piglio personali, come potevano essere quelli di Inarritu (il cui rutilante girare si sposava bene alle tipiche frammentazioni arriagane) o di Jones, ci aiuta ancor più nell'analisi dello script e della sua struttura, visto che in questo caso lo stile registico, anonimo fino all'inesistente, risulta ripiegato totalmente su una sceneggiatura che è puro intrecciarsi di piste su due blocchi narrativi e che si compiace di questo senza badare ad altro. Due linee cronologiche si alternano, ma la rivelazione cui dovrebbero preparare viene messa a nudo (involontariamente?) molto presto: il film a quel punto perde interesse denunciando che dietro il meccanismo (che in questo caso, dunque, funziona a metà) c'è ben poco.

Rimane l'attenzione, non meno programmatica (ma proprio per questo discretamente interessante), che Arriaga dimostra per i personaggi, rispetto ai quali l'adesione dell'autore pare essere, come sempre, diretta al solo aspetto funzionale: il regista segue lo sviluppo delle sue creature soprattutto in relazione all'architettura di un plot che si rivela consueto melodramma eccessivo, senza essere completamente spudorato, tragedia al cubo in cui però i sussulti risultano ragionati in diretta connessione con la necessaria evoluzione della vicenda; i caratteri (non privi di corredo simbolico: i protagonisti incarnano i quattro elementi - indovina chi è il fuoco -) agiscono come figure di studiato espressionismo: si struggono, distruggono e si distruggono (figli che perpetuano i sensi di colpa/dolo genitoriali impigliandosi le riflessioni e i risentimenti di ognuno in un ordito in cui tutti soffrono indifferentemente), ma il cui dolore è palese materia letteraria e le cui parole e gesti suonano come puro artefatto, pregiato oggetto di rappresentazione (in questo senso la presenza di due dive aumenta ancor di più il tasso dissociativo - la Basinger che dà da mangiare ai polli è proprio la Basinger che dà da mangiare ai polli - e rimarca il carattere del film come puro paradigma).

The Burning Plain, esordio alla regia di Guillermo Arriaga, è, come osserva acutamente Pacilio, un film-manifesto, nel senso che espone con paradigmatica chiarezza ragioni e modi della poetica del blasonato romanziere e sceneggiatore messicano. Scomposto nel flusso cronologico, imperniato su vicende apparentemente slegate ma intrinsecamente interdipendenti e fondato su un’architettura ad alto coefficiente simbolico (non solo i personaggi elementali ma anche le cicatrici come segni emotivi e i luoghi come avamposti drammatici), The Burning Plain enuncia insomma l’Arriaga-pensiero, facendo gradualmente convergere traiettorie narrative che sembrerebbero poco propense a dialogare tra loro. Ma se è vero che la programmaticità risulta dato incontrovertibile, non è altrettanto vero che questa si travasi cinematograficamente in forme impersonali o asservite al solo effetto patetico: Arriaga, al contrario, escogita soluzioni tanto radicali quanto dedrammatizzanti, neutralizzando (deliberatamente?) il potenziale ricompositivo e raffreddando l’incandescenza sentimentale del suo film. Come? Tramite la scrittura innanzitutto: per la prima volta (diversamente dai film scritti per Iñárritu e Lee Jones) il procedimento di frammentazione della linearità si protrae oltre la deflagrazione del dramma. Blocchi del passato di Gina (Kim Basinger) e Nick (Joaquim de Almeida) continuano ad affiorare post eventum, dimostrando che la scompaginazione del flusso narrativo non è semplice espediente drammatico, ma principio che scavalca l’effetto-commozione per affermarsi quale generatore indipendente di senso (l’interconnessione tra gli individui come dimensione che eccede il casuale precipitare degli eventi e trascolora in fatalità). Attraverso due soluzioni squisitamente visive in secondo luogo: l’attendismo e l’arretramento. Il primo consiste in una particolare disposizione dei punti macchina che anticipa discretamente l’entrata in quadro dei personaggi o ne attende staticamente l’avvicinamento (si pensi alle ispezioni della roulotte da parte di Mariana); il secondo si identifica con la collocazione sensibilmente arretrata rispetto alla scena degli stessi punti macchina, il che si traduce spesso in riprese distanti (esemplare l’abbraccio di mezzogiorno tra Gina e Nick, filmato in campo medio-lungo) o in composizioni posteriori (con i personaggi inquadrati ostinatamente di spalle). Un trattamento del genere, peraltro praticato per tutto il film, non soltanto è ben lungi dall’impersonalità o dall’anonimia stilistica, ma si salda perfettamente all’inedita radicalità della scrittura di cui sopra: se l’eccedenza della scomposizione narrativa trasfigura in fatalismo, l’attendismo e l’arretramento conferiscono al dettato visivo un sapore di quieta e sommessa rassegnazione. Da una predeterminata e lungimirante distanza, la mdp assiste all’inesorabile accadere degli eventi, astenendosi dal giudicare e contemplando con smorzata compassione la bruciante pianura degli uomini. Purtroppo, e qui sta a mio avviso l’autentico limite di The Burning Plain, il rigore della messa in scena a lungo andare declina in monotonia (intesa alla lettera come unicità di tono), impedendo ai singoli frammenti di sollevarsi emotivamente. Restano brandelli di maestosa suggestività ambientale (il carrello laterale che scruta Charlize Theron sull’orlo dello strapiombo, le riprese aeree di Santiago che sorvola i campi di sorgo), isolati e tormentati sguardi raso macchina (la Basinger stretta tra ragione e sentimento, ancora la mesta Theron affacciata alla finestra), una fotografia matericamente preziosa (Robert Elswitt e John Toll) e un commento musicale di elettrica abrasività (Omar Rodriguez-Lopez e Hans Zimmer). Ma la ricomposizione filmica resta mosaico muto, incapace di comunicare e toccare in profondità. Per eccesso di zelo.

È un vero peccato che l’affiatata coppia Alejandro González Iñárritu (regista) e Guillermo Arriaga (sceneggiatore) abbia rotto il proprio sodalizio (e male, litigando sulla paternità delle opere firmate insieme), poiché nessuno dei due, in solitario, è riuscito a raggiungere la stessa qualità: a uscirne più malconcio è proprio Arriaga, perché le sue mirabili composizioni tragiche a mosaico temporale e spaziale, che partono sempre da un incidente, hanno bisogno del pathos, della figuratività, delle accelerazioni emotive/ritmiche, delle sospensioni, della crudeltà con carezze, della (superiore) direzione delle recitazioni della regia di Iñárritu. Questo suo esordio registico ne è la prova: lo schema diventa schematico (le donne-uomo: abbandonare i figli, passare da un talamo all’altro, tradire il consorte) e la scelta di passare dall’universale (la filosofia olistica nei film con Iñárritu) al particolare (qui c’è un mero dramma personale) non paga, perché il senso non si allarga a varie anime in vari mondi, ma si chiude in un cuore traumatizzato dalle proprie gesta, per altro prevedibili. Mancano le emozioni, le sorprese drammaturgiche, gli incastri significativi, per quanto sia sempre un cinema di alto livello per disegno dei personaggi, prove attoriali, temi affrontati e scene emblematiche (quella dell’incendio, con Jennifer Lawrence che prima sorride poi si pente, è grande cinema). La “soluzione-rivelazione” finale fra madre e figlia lascia insoddisfatti.