TRAMA
Gli ultimi otto anni di vita di Harvey Milk, portavoce della comunità gay di San Francisco, eletto consigliere comunale nel 1977 (primo omosessuale dichiarato a ottenere un incarico politico), protagonista della lotta contro la Proposition 6 (ordinanaza che prevedeva il licenziamento degli insegnanti gay) e ucciso, l’anno dopo, dall’avversario di sempre Dan White.
RECENSIONI
La filmografia di Van Sant si frastaglia vieppiù. L'inizio è indie (da Mala Noche a Even Cowgirls get the Blues), l'esordio major un discreto botto (Da morire), il prosieguo mainstream un'altalena tra altissimi (Good Will Hunting) e bassissimi (Scoprendo Forrester) che passano per una Vertigo teorico-concettuale da emicrania (Psycho) per arrivare a Gerry, che inaugura una tetralogia della rarefazione e dello straniamento, con i due episodi centrali piuttosto deboli (Elephant e Last Days, adamantini esempi di stridore forma-contenuto) e una chiosa rincuorante (Paranoid Park). Con questi ultimi quattro film, lo stile di Gus sembrava essersi prima rivoluzionato e poi assestato: a un'architettura narrativa volutamente debole e fluida si accompagna una regia che predilige il piano fisso, il lento movimento di macchina e il piano sequenza, con l'apparente volontà di filmare il tempo che scorre, o di manipolarlo con ralenties antispettacolari e apparentemente ingiustificati. Questo a grandissime linee, chiaro, e con un'approssimazione della quale un giorno mi pentirò (forse).
E siamo a Milk, che sostanzialmente riapre per il cinema di Van Sant la politica dell'alternanza tra piccole opere personali e medio/grandi produzioni alimentari. Con una complicazione. E cioè che Milk è il primo film 'impegnato' ed esplicitamente legato alla realtà (non che Elephant e Last Days non lo fossero, a modo loro). La complicazione sta soprattutto nei limiti che un biopic del genere si porta dietro, con relativi dazi da pagare: la necessità di aderire ai fatti, avvicinandosi il più possibile alla verità, per restituire comunque una figura importante senza beatificarla e insieme immortalare e attualizzare il nocciolo del problema legato alla vicenda (nella fattispecie, la discriminazione degli omosessuali). Gus Van Sant (se) ne esce con unopera compromissoria che lascia un retrogusto gelido. Il tema, sulla carta vansantiano (emarginazione e incomprensione sono due Leitmotiv nella filmografia del Nostro), è affrontato in modo non del tutto banale ma piuttosto ordinario, con troppa attenzione al 'pubblico generalista' (si fa per capirsi) e alla chiarezza espositiva: Van Sant sembra sempre indeciso tra l'esplicitare e il nascondere, tra il problematizzare e il semplificare, tra l'obliquo e il diritto ma sono troppo spesso i secondi elementi delle diadi a prendere il sopravvento; e anche quando la via hollywoodiana dovrebbe aprirsi alla sacrosanta, quanto facile, commozione (la parata di lumini finale) Milk si mostra goffo (il falso allarme che dovrebbe generare il groppo in gola automatico - l'orazione semideserta 'non importava un cazzo a nessuno?'- ) e quasi interruptus, come se ci fosse unaura di serietà e rigore da preservare.
Il comparto recitativo, in attesa di sentire le voci originali, non ci sembra dare una grande mano: Sean Penn è il solito attore come tanti che si crede (ed è creduto) 'grande' chissà perché (il defunto fratello Chris avrebbe avuto molto da insegnargli, per dire), il parimenti candidato all'Oscar Josh Brolin sfoggia una prova di anonimia esemplare, se non peggio, mentre più a suo agio ci è parso James Franco, che però esce prematuramente di scena per rientrarvi quasi 'a babbo morto'.
Certo ci sono buone cose: l'opera di ricostruzione storica è riuscita, con finzione e repertorio che dialogano spesso in campo/controcampo e la regia che si mimetizza a colpi di cinéma vérité, si ricordano volentieri lo split screen impazzito che diventa mosaico pop, il dialogo (fin troppo) simbolicamente riflesso nel fischietto insanguinato o la sequenza del duplice omicidio finale, con pedinamento post-zavattiniano molto Van Sant, molto Elephant, ma sono sprazzi, neanche tanto esaltanti. Specie dopo l'austera, cristallina bellezza di Paranoid Park, trovarsi un Gus Van Sant così apparentemente poco coinvolto e convinto, o semplicemente troppo intento a far quadrare i conti (non solo economici, ovviamente), lascia davvero l'amaro in bocca.
Possiamo giudicare un film per quello che racconta? Sicuramente no, ma tenerne conto certamente sì, soprattutto se, come mi pare avvenga in questo caso, la materia finisce col designare/disegnare la forma, tanto da mettere nel conto il famigerato messaggio (uso l’orrenda parola per essere convenzionalmente comprensibile) che, mi pare, si ponga come obiettivo primario del regista al punto da condizionare la fattura del suo lavoro: GVS vuole dire chiaramente, e la comprensibilità del suo discorso da un lato forma il suo lavoro, dall’altro è condizione essenziale perché esso discorso venga recepito. Per dire il regista sceglie di narrare la vita di Harvey Milk come un classico biopic, genere che ossequia nella maniera più prevedibile (il protagonista che racconta di sé al registratore e che scandisce, con il più usurato degli espedienti, le vicende salienti del suo percorso), attraverso la voce fuori campo che circostanzia le scene, le didascalie, l’avventura politica e umana esposta in maniera didattica, precisa, fredda. Il confronto di Milk con il resto della filmografia dell’autore è ovviamente lecito, per quanto, a mio avviso, poco pregnante, risolvendosi la questione nei termini di un'ulteriore virata, probabilmente episodica e quasi certamente non significativa nella definizione della sua poetica filmica.
Torniamo al Cosa: GVS vuole esporre una parabola esistenziale esemplare perché il pubblico rifletta, mettendogli davanti un lavoro che, in prima istanza, è un inno a favore della Causa Gay. L'impegno di Harvey Milk è il suo e come Milk anche GVS vuole reclutare alla Causa tutti coloro che sono presenti in sala. Milk è (perché vuole esserlo) un appello alle coscienze che si dirama attraverso (ecco il Come) un'operazione piana (piatta?) che sorprende solo chi il regista lo conosce bene (la minoranza). Perché? Perché (rieccoci al Cosa) il discorso si deve imporre, va compreso, va condiviso, non può impigliarsi in sperimentalismi, non può (e non deve) essere confuso nello stilismo (più o meno gratuito - qui i pareri divergono, ma non è importante in questa sede -) delle sue ultime opere. La Causa si serve rivolgendosi alle masse e parlando con un linguaggio che sia il più possibile lineare, chiaro, un modus calcolato al millimetro attraverso il quale Milk appaia come il personaggio importante che è stato e del quale è importante narrare la vita, senza fare della Causa omosessuale una bandiera ingombrante che sventoli davanti agli occhi dello spettatore, ma efficacemente la sostanza che determinò l’agire del protagonista, esattamente come il pacifismo lo fu per la vita di Gandhi, tanto per fare un esempio di biografia tradizionale oscarizzata. E a proposito di Oscar le candidature che il film ha ricevuto nelle categorie più importanti possono essere viste come un ulteriore obiettivo raggiunto nella strategia normalizzante di cui il film è oggetto, nella consapevolezza che passare attraverso i meccanismi della grande comunicazione sia lo strumento più efficace per rendere l’ennesimo servizio alla Causa (film commerciali - mediocri - come Brokeback Mountain, in questo senso, sono serviti molto di più dei film militanti - straordinari – di Jarman che, come tutte le espressioni del cinema d'arte, nascono per un pubblico di nicchia e lì vanno a seppellirsi). Forse Milk ha sancito davvero la trasformazione più faticosa alla quale GVS si è dovuto sottoporre nella sua carriera: non solo il regista che gira un film per uno scopo altro (ieri il Soldo), ma anche (e soprattutto) un regista che gira per uno scopo altro (oggi la Causa) in un ambito (quello gay) che pertiene alla sua consueta poetica filmica e che in questo caso si costringe ad affrontare con distacco, rigore, freddezza a tratti esasperati (di qui quell’indecisione, che c’è, indubbiamente, e della quale parla Pelleschi). Non mancano i momenti in cui l’autore si fa prendere la mano per mettere la firma sulla pellicola (la bellissima scena iniziale a letto, con la macchina inquieta di Savides che insegue magnificamente i dettagli; i dialoghi nel Palazzo tra Milk e White, con l’ambiente che incombe sulle figure marginalizzate; la stesso modo in cui viene caratterizzata la parabola perversa di White è Van Sant puro; lo split-screen alla millesima; la citazione – tale mi è evidentemente parsa - dei quadri di David Hockney nella scena di Scott in piscina), ma sono sprazzi nell’ambito di una pellicola accortissima che non dimentica mai dove deve puntare, anche a costo, talvolta, di suonare anonima. Tutto questo complesso di accidenti mi pare imprescindibile nella valutazione del film che chiede di essere giudicato innanzitutto per quello che è e poi, se proprio si vuole, nella considerazione del suo artefice e di quella che è la sua opera.
Immagini di repertorio in b/n sulle retate poliziesche nei bar gay statunitensi degli anni 60. Un uomo che al magnetofono ripercorre la propria esistenza allombra della morte imminente (Sean Penn, ancora un dead man walking ma innamorato della vita, ottima performance mimetica addolcita da nervature malinconiche). Inizia così Milk, storia di una collettività e storia di un uomo, e le direttrici sembrano due, il film 'd'inchiesta' e d'epoca supportato da innesti documentaristici e il biopic di foggia classica imperniato su un racconto in flashback e in crescendo di vita privata intrecciata a impegno politico. Milk è anche questo (e riesce ad esserlo con una pulizia quieta che non ha bisogno di sottolineature ridondanti né di concessioni a surriscaldamenti hollywoodiani). Ma Milk, ancor di più, è una riuscita e rischiosa scommessa formale, unopera al tempo stesso engagée e intima. Quello che già Van Sant aveva sperimentato con risultati più o meno discutibili (in particolar modo nel dittico 'pedagogico' Good Will Hunting e Finding Forrester), ovvero il mix di istanze autoriali e linguaggio mainstream, graffi eversivi e schemi narrativi più che rodati, non è più semplice compromesso ma un atto politico (e cinematografico) perseguito con cervello e cuore. Gay dichiarato, Van Sant non soltanto celebra la figura di Harvey Milk ma ne traduce filmicamente la lezione. Il reclutamento si articola in una vera e propria identificazione: Gus Van Sant è Harvey Milk e come Milk ricerca nuove strategie comunicative che non necessariamente implicano un accondiscendere a sgradite regole altrui per perseguire l'obiettivo. Non più beat scapigliato, Van Sant/Milk si presenta in look formale e chioma composta, esibendo un'immagine di sé inconsueta, perché forse conforme a un comune vedere (ma non sentire), senza che ciò ne intacchi la verità o l'individualità. Van Sant/Milk lavora sulla propria immagine, quella già nota, mai snaturandola, perché ad essere riconosciuta sia l'immagine di chi è invece costretto a nascondersi allo sguardo, e quindi alla conoscenza, altrui (ritornando alle immagini di repertorio dell'incipit, ecco i volti degli arrestati schermati con le mani, ecco uno gesto furioso a coprir l'obiettivo indiscreto e colpevolizzante del giornalista; e ancora, la scelta di Milk di aprire a Castro proprio un negozio di fotografia: le immagini del quartiere fissate su pellicola a catturarne il fermento e la poliedricità, le istantanee di Scott/Franco che cantano liberamente un amore osteggiato dai più)[1]. Strategie politiche, strategie della visione, prive di cinismo, intrise di entusiasta pragmatismo (sì, se serve, ripuliamo perfino le strade dagli escrementi dei cani). Momenti come il già citato split screen che si trasforma in mosaico pop (in cui affiora maliziosamente, più volte, un ragazzo a torso nudo), il virtuosismo à la Scorsese del dialogo sul luogo di un crimine interamente riflesso in un fischietto (sineddoche paradossale: il tutto nella parte), gli slogan attivisti inseriti come cartelli godardiani o ancora la minaccia senza volto né voce condensata in un fuori fuoco notturno per le strade alle spalle di Milk/Penn non costituiscono saltuari assoli stilistici ma si inseriscono in un flusso visivo compatto nel quale stralci documentaristici, servizi televisivi, scatti fotografici, bianco e nero cronachistico e super8 dai colori sgranati, gusto lineare del racconto e robusta e piana struttura biografica restituiscono unepoca e progettano un'utopia (anche perché per ogni Proposition 6 sconfitta c'è sempre una Proposition 8 contro la quale ancora lottare). Un affresco che si snoda intrecciando anche diverse e altre suggestioni cinematografiche: il lirismo anarchico dell'underground americano (nel culto del quale Van Sant è cresciuto), l'impegno liberal della New Hollywood anni '70 e, procedendo ancor più a ritroso, perfino il fervore idealista delle pellicole di Capra (Milk come un Mr Smith gay che va a Washington). Il tutto intessuto dall'eccezionale lavoro del cinematographer Harris Savides, che doppia il lavoro svolto in Zodiac. Se la San Francisco del film di Fincher era ritratta digitalmente in tutta la cupa disillusione di un'indagine senza sbocchi, quella di Gus Van Sant, nonostante la morte annunciata che grava fin dall'incipit sull'impianto narrativo (morte che segnava profondamente altri tre lavori gusvansantiani fotografati da Savides, Gerry, Elephant e Last days), viene restituita palpitante alla luce di una speranza stratificata e rinnovata. Film squisitamente 'obamiano' (per utilizzare un aggettivo già in corso d'abuso), Milk è anche un tributo a tutte le creature filmate fino ad oggi dal regista, emarginati senza dimora, marchettari senza famiglia, cowgirls e drogati recidivi, adolescenti disorientati, giovani suicidi. Fino ad oggi Van Sant ne aveva esplorato il disagio e la fiera marginalità (fissando anche l'orrore del vuoto che si trovavano a costeggiare), adesso ne rivendica i diritti, ratifica la legittimità della loro immagine. Contro l'establishment, nell'establishment.
Paranoid Park si chiudeva dove aveva inizio (forse) il risveglio.
Il risveglio della consapevolezza, nel caso del giovane protagonista del film, doveva coincidere con il ritorno alla propria voce: «Tu che non ricordi/passaggio dall'altro mondo/ti dico che seppi parlare di nuovo: tutto ciò/che ritorna dall'oblio ritorna/per trovare una voce...» ¹ Paranoid Park era il tentativo di questo ritorno attraverso le dichiarazioni della contemplazione e le rincorse del suo oblio; fino all'ultimissimo atto nell'attimo prima del risveglio.
Il risveglio è ciò che lega Milk al precedente Paranoid Park.
Nella penombra di Frisco, Harvey milk si è appena risvegliato da una morte annunciata. La sua voce, davanti al microfono di un registratore, chiede come ultima cosa di «avere il tempo» di immaginare per se stessa la propria storia. «La vera immaginazione del mondo - assicura il filosofo americano Stanley Cavell - è una questione di risveglio» ². Ma che cosa significa immaginare nel mondo? Significa andare accanto alle cose del mondo e 'reclutarle', tutte; significa accettarle e accettare gli altri senza la necessità di una qualche dotta «garanzia» che ne giustifichi l'esistenza in un modo o in un altro. Un atto di fiducia estrema che solo, assicura il filosofo, porta alla felicità. Seduto nella stanza livida del suo appartamento, Milk recluta adesso la propria storia per far sì che le zone della vita e quelle dell'immagine, insieme a tutte le altre zone d'America, non siano mai più «sgombrate» in nome di una fasulla «maggioranza normale». Le stesse zone che poco prima le immagini di una repertorio violento (le umilianti, disumane persecuzioni delle forze dell'ordine contro gli omosessuali) avevano mostrato cancellate, violate, forzate dentro un'immaginazione senza alternative; una «falsa» immaginazione capace di generare unicamente il «sospetto» paralizzante e fecondo di odio. Il sogno americano dopotutto era ancora questo: un grande sonno censurato nel bianco e nero di qualche pellicola.
Siete sicuri, allora, di essere svegli? San Francisco tace. Ma quell'«Io sono qui» - quello pronunciato da un tale Harvey Milk, arrivato come un'ombra qualsiasi da New York, e quello ribadito nella cucina del suo appartamento otto anni dopo - metterà in guardia il mondo dalla minaccia di un nuovo silenzio.
Nell'America di Milk degli anni Settanta, la lotta per la parità dei diritti civili fra omosessuali e eterosessuali è un questione di visibilità. A differenza dei suoi timorosi avversari, che «ripudiano» una zona dell'essere umano tentando di oscurarla completamente, Milk è il solo ad immaginare 'apertamente' per le cose del suo mondo (reclutate anche dalle traiettorie circolari della macchina da presa) un posto felice (il proprio) nel visibile. La stessa forma, ormai non più indecisa tra «le diverse realtà delle cose», si è alleata con il visibile in favore di una robusta trasparenza che il corpo di Milk, ritto davanti a folle solitarie ma 'non più vietate da motivi di ordine morale', conduce spontaneamente. Così, se è vero che «è assai più facile mettere a posto qualcosa se la si può vedere» (David Foster Wallace), Milk e con lui il suo movimento, già destinati a sopravvivere, vinceranno la loro battaglia; mentre tutto il resto continuerà a ripresentarsi come una solita Anita Bryant ripescata tra qualche vecchio documento audiovisivo dell'epoca.
La felicità, assicura anche Gus Van Sant, è nel visibile.
È uno sguardo profondamente diverso quello che si deposita sulla centralità del personaggio Harvey Milk. Innanzitutto c’è una centralità differente rispetto all’intimistica emanazione del vedere in un film come Last Days, o alla raggelata lacerante impossibilità di meditazione sul dolore di Paranoid Park. L’emblema della dichiarata antisocialità espresso in Gerry più che una subita torsione poetica vansantiana va a frantumarsi nell’impatto di un film “finalmente” sociale in cui i movimenti introspettivi vengono colti a partire da dinamiche completamente estroflesse. L’interiorità dei personaggi viene percepita dal loro essere sociale. Se c’è una cosa che non può essere imputata al cinema di Gus Van Sant è di commettere scivoloni di agiografico biografismo, nonostante i trailer – che sono sempre frammenti inquietantemente eterocliti e decontestualizzati di un intero – lascino supporre il contrario. Milk è un film consapevolmente razionalista e l’arringa sulla speranza è il compimento di una parabola attraversata da precise tappe di acquisita consapevolezza politica da parte del protagonista. L’iperbole casomai è quella dell’exemplum, di un Milk forse troppo incongruamente simile a figure di estrema riconoscibilità come Roosevelt e Martin Luther King, ma Van Sant sembra preoccuparsi più dell’esemplarità di una svolta dai tratti umani che dipingere il ritratto di un condottiero delle minoranze, anche se la sua morte accompagnata dalle note della Tosca risuona non come un mesto epicedio ma come la sonata trionfale di un epico martirio dell’eroe tragico. La decisione di non rimanere immobile a specchiarsi nell’ingiustizia sociale che lo costringe al nascondimento e ai gesti furtivi nelle metropolitane trasforma il candore di un uomo mite in risoluto diritto all’espressione e alla verità dell’esserci come disvelamento di un’urgenza esistenziale. Harvey Milk capisce a quarant’anni, dopo l’incitamento del compagno “a darsi una mossa”, l’importanza da parte di un individuo di reclamare un ruolo sociale e di essere parte integrante di una società, e il diritto di dichiararsi apertamente appartenenti a una minoranza. Il viaggio da New York a San Francisco è anche il racconto di una decisiva metamorfosi che segna il passaggio da una dimensione privata all’esigenza della pubblicità, un transito lukacsiano dall’incoscienza qualunquista dell’individuo indifferente alla coscienza politica dell’homo societatis. Percorso però tragico, come accennato, sintetizzato dalle due immagini riflesse del “fischietto anti-sbirro”, e dello specchio nell’ufficio in cui verrà ucciso. È dunque quella di Van Sant la descrizione di una sorta di ascesa al potere da parte di una persona che si dimostra pronta ad attraversare le reticolari dinamiche del potere senza essere “uomo di potere” poiché Milk è l’uomo nuovo che ha compreso l’importanza fondamentale del canale politico per giungere al suo obiettivo di riforma sociale. È il soggetto che sente di dover divenire tramite di un movimento e che ha capito che il potere non è volontà del potere ma volontà di avere “la possibilità di”. Per questo una volta oltrepassata la soglia del palazzo comunale dopo l’esperienza di innumerevoli campagne per la candidatura di consigliere Van Sant sembra inizialmente ridicolizzarne la portata fotografandolo in campo lungo mentre fa giochi puerili all’interno di un amplissimo ambiente che non è il suo (in antitesi al negozietto di articoli fotografici piccolo e affollatissimo in cui Milk raduna febbrilmente il suo elettorato), per poi riproporcelo a distanza molto più ravvicinata quando Milk entra in contatto con le personalità amministrative locali e incomincia ad andare “a braccetto” col sindaco George Moscone. Interessante a questo punto la dialettica a distanza che si innesca tra Milk e White. Dan White, altro membro della giunta comunale, rappresenta proprio il contrario di Milk, l’uomo medio americano, e dunque vecchio, che non riesce a decodificare le semantiche del potere. White è l’esponente ingenuo perché strumentalizzato della vecchia politica “frischiana” delle lobbies (blue collar, pompieri, etc.), colui che non è in grado di capire quelle microfisiche del potere che si attualizzano nel momento in cui le figure della politica urbana intravedono nel proprio obiettivo il bersaglio da raggiungere. White ha una mentalità ristretta e la sua finalità corrisponde a un obiettivo eteronomo che non è il suo, e il proprio è un pensiero minuscolo (l’aumento degli stipendi ai funzionari amministrativi), quando Milk invece sta già allargando su più vasta scala, e dunque macrofisicamente, il suo piano di battaglia per le minoranze, in un contrasto globalizzato con la potenza bigotta del senatore Briggs e dell’attrice fondamentalista. È la stessa inadeguatezza delle dimensioni che porta White al gesto tragico del finale, l’incapacità di leggere i contesti e di percepire dove stanno andando le idee politiche nella San Francisco degli anni ’70. E dell’America tutta, se è vero che la visione data da Ron Howard in Frost/Nixon è invece proprio quella complementare del fallimento delle macrostrutture, dei massimi sistemi del potere.