TRAMA
Ben Thomas sta cercando sette sconosciuti a cui cambiare la vita. Nel suo passato qualcosa non è andato per il verso giusto e ora combatte con uno schiacciante senso di colpa. Nelle sue peregrinazioni incontra Emily, una bella ragazza malata di cuore a cui vengono diagnosticate poche settimane di vita.
RECENSIONI
Meno riuscito di La Ricerca della Felicità, anche perché rischia maggiormente con una struttura narrativa giocata su flashback e salti temporali non annunciati, molto laconica, pregna di misteri che solo nella parte finale svelerà. La drammaturgia è un poco faticosa, centrata su piccoli episodi che lo spettatore non riesce a “vivere” appieno proprio in quanto sprovvisto di strumenti interpretativi. Muccino, poi, dilata i tempi per il suo cinema dell’anima che proprio a Hollywood, caso più unico che raro, pare essere maturato e giunto a compimento, ma attecchisce poco in un contesto così volutamente parco di informazioni. È a rischio anche la recitazione di Will Smith che non sa come sovrapporre le varie maschere che deve indossare, quella del depresso, del manipolatore, del pastore di anime: qualche sua smorfia ed espressione è dissonante, ma è anche vero che fa parte della complessità del plot (e comunque sempre onore al merito nel momento in cui produce pellicole cosi anticonformiste e valorizza il nostro regista, “maestro delle relazioni umane” a suo dire). Ciò non toglie che sia un cinema potente, umano, grave e tragico, fin dalla prima battuta all’insegna della Morte con personaggi in credito con la Vita (Muccino ha citato la struttura de Il Sesto Senso): il personaggio di Rosario Dawson si dice bluastro (moribondo) e la pellicola gli prende a prestito il colore della fotografia. Una prova recitativa encomiabile la sua, un carattere con cui lo spettatore inizia a penetrare i segreti del protagonista, e viene portato su coordinate insieme disperate e generose, mentre il puzzle di un piano esistenziale implacabile e ordinato si ricompone in modo emozionante e si è coinvolti in un’intensa traccia romantica, in varie simbologie, corrispondenze numeriche (giocate sul 7: il peso dei pounds del titolo originale, invece, fa riferimento a Il Mercante di Venezia).
Muccino ha ragione quando dichiara che la sua è una pellicola rischiosa, difficile, coraggiosa; non certo perché affronti “temi forti”, “scomodi” o altre sciocchezzuole simili, ma perché Sette Anime [1] sfida il ridicolo e ha l’ardire di combatterlo a colpi di costruzione. La storia, a uno sguardo sinottico, palesa derive quasi trash, con questa banca organi ambulante in cerca di redenzione, autoflagellante (rinuncia perfino all’anestesia locale quando dona il midollo) e votata al martirio, che incontra l’anima gemella “figa” (sic), moribonda, dal cuore (sì, il cuore) compatibile. Ma, si sa, il come la vince sempre sul cosa. E Muccino, che certo non è fesso, vede bene di sfumare i contorni con un’aura sospesa, fiabesca e di mutuare struttura e composizione dal cinema-fantastico-con-epifania-finale che tanti proseliti ha fatto da una decina d’anni a questa parte. E così, il film è fin da subito disseminato di signs non univocamente decifrabili (il flashforward in apertura, la crudele telefonata a Ezra, i pedinamenti, i flashback) che, come da tradizione, costruiranno una suspense destinata a culminare e a sciogliersi quando tutti i nodi narrativi verranno al pettine. C’è da dire che se da un lato, in questo modo, Muccino confonde le acque e sfugge per un pelo alla spada di Damocle del ridicolo involontario, dall’altro la sceneggiatura dell’esordiente (al cinema) Nieporte non lo aiuta moltissimo. La struttura infatti regge fino a un certo punto, perché la dislocazione di informazioni e la progressione drammatica non sono affatto esenti da vuoti e sbilanciamenti, tanto che alcuni esiti sono prevedibili ab initio o quasi (il ruolo della letale cubomedusa, la love story ipermelodrammatica) mentre altri tasselli chiave sono accennati, dimenticati e infine maldestramente risolti in quattro e quattr’otto (il ruolo centrale del citato personaggio di Ezra, oltretutto sottoposto a un “test” – la crudele telefonata al call center – che dovrebbe verificarne la bontà ma che ne mette alla prova solo la professionalità).
E questo senza accennare al fattore commozione. Perché non c’è niente di male nei film che fanno piangere (in senso buono), basta che non se ne facciano accorgere troppo e che mimetizzino un po’ le loro reali intenzioni. Sette Anime, nella “resa dei conti finale” di cui sopra, da questo punto di vista gioca a carte troppo scoperte. Non solo, infatti, si cerca di far quadrare i conti della coerenza narrativa, ma si addensa più di un sospetto che il tutto fosse quasi esclusivamente destinato a commuovere: l’amore finalmente sbocciato, consumato e dichiarato, il perfezionamento della bio-agio-grafia del protagonista, l’abbraccio finale tra “amici risanati”. Ok. Tipo: vuoi le mie lacrime? Chiedile educatamente, con discrezione, non rovinare il momento tramutandolo in un’estorsione arte-fatta ed etimologicamente sofisticata.
Ma ci sta. Perché Gabriele Muccino, in fondo, la sua scommessa l’ha vinta, e al suo secondo outing americano confeziona un lavoro meno solido del precedente ma sicuramente dignitoso, dove al di là di cedimenti e scricchiolii, lo ribadiamo, sventa il ridicolo (e non era facile, neanche un po’), conferma un polso registico realmente internazionale (nel bene e nel male) e, non ultimo, sa mettersi al servizio del nume tutelare Will Smith (e della sua necessità di diversificazione/riqualificazione attoriale) senza genuflettersi ma regalandogli comunque tanti primi e primissimi piani che gli consentano di far vedere quant’è bravo a modulare due o tre stati d’animo in un’unica sequenza priva di stacchi.
Muccino è “furbo”, sì, e si è sempre detto, ma insomma il suo mestiere lo conosce bene. Avercene, di furbi così.
[1] L’italianissimo Muccino non sfugge alle italianissime storture della distribuzione: The Pursuit of Happyness perdeva, nel titolo italiano, tutto il senso dell’errore ortografico originale. Seven Pounds diventa invece Sette Anime, già bruttino di suo, ma soprattutto privo del riferimento shakespeariano e, azzardiamo, del rimando ai 21 Grammi di Inarritu, che col film di Muccino hanno più di un’analogia.
La ricerca dell’infelicità
Continua il sodalizio professionale tra il regista italiano dallo sguardo più internazionale e l'attore americano più redditizio del pianeta. Dopo un american dream con l'anima d'acciaio rivestita di pacatezza (La ricerca della felicità) bisogna riconoscere ai due artisti il merito di non essersi seduti sugli allori. Con Sette anime, infatti, rischiano molto, probabilmente, alla luce dell'esito, più del dovuto. L'opera è infatti difficilmente ascrivibile a un genere e mescola, non sempre con equilibrio, il dramma con la storia d'amore, tenta un approccio timidamente thriller, sfiora la commedia gentile e trova una chiusa ai limiti del cristologico. Le lodevoli intenzioni si scontrano però con un risultato che non convince. Due i maggiori punti deboli della pellicola. Uno è nella sceneggiatura di Grant Nieporte che resta sempre in superficie nel tratteggiare la mestizia diffusa, accontentandosi di innestare rapporti causa/effetto piuttosto meccanici, in cui i personaggi si limitano a essere pedine di un gioco al massacro tanto virtuoso quanto improbabile. L'altro è Will Smith. Il divo aggiunge un ulteriore santino alla sua collezione di personaggi edificanti e, pur provando a mettere da parte l'allure, si limita a tradurre la sofferenza del protagonista in un'unica, perenne, smorfia. Curiosamente il suo Ben Thomas è quasi complementare al Jigsaw della saga orrorifica Saw. I due partono da punti di vista opposti (uno il trauma l'ha subito, l'altro lo ha inflitto) per giungere però alle stesse conclusioni. Affetti da sindrome superomistica si ergono infatti a giudici inappellabili in grado di sentenziare cosa è Bene e cosa è Male e di offrire ai prescelti un'opportunità di redenzione o una via di fuga. Vittime meritevoli di morire da una parte e casi umani degni di vivere dall'altra. Per JigSaw il verdetto porta il più delle volte alla morte. Ben Thomas regala invece una vita migliore. Se in Saw a dominare è però la lucida follia dell'ingegnoso omicida seriale, in Sette anime l'opinabile equazione matematica sottesa al piano del protagonista non viene mai messa in discussione, e anche mai veramente approfondita, tagliando con l'accetta i suoi eccepibili criteri selettivi (se uno risponde a male parole al telefono a una persona maleducata è bollato come "cattivo", quindi non salvabile) e limitando il dolore a una sua didascalica rappresentazione. Poco originale poi, e tipicamente americana, l'idea di un'espiazione costruita a tavolino in grado di placare il senso di colpa. Come se gesti lodevoli e buone azioni potessero dare luogo a un rewind salvifico. Di solito è la vendetta a rendere, chissà perché, giustizia; in questo caso, antitetico in quanto dal punto di vista dell'involontario carnefice, il sacrificio. Continua poi la "moda" di sfalsare temporalmente il racconto partendo con un breve flashforward. Scelta che, nel caso specifico, poco aggiunge e, anzi, smaschera fin da subito l'assunto (è chiaro il cosa, diventa via via evidente il come). Quanto a Muccino, si conferma un abile confezionatore di storie, solido nello scandire con fluidità i passaggi chiave, in grado di trarre il meglio dagli attori (limiti di Smith a parte) e capace di dominare il suo ego registico a beneficio della tensione, in questo caso presunta, del racconto (tra i pochi tocchi personali alcuni fuori fuoco non privi di interesse). La Via Crucis che ne deriva, tuttavia, risente del peso di una struttura troppo artificiosa e offre grevità in saldo incapaci di scaldare il cuore. Niente lacrime, quindi, ma intermittenze, qualche black out e una distanza che non si colma.