Commedia, Recensione

L’AMORE NON VA IN VACANZA

Titolo OriginaleThe Holiday
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2006
Genere
Durata138'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Essendo centrale nella recensione qui sotto, la trama lascia questa casella trasferendosi in un contesto più ampio, dove si mischia alla sua analisi

RECENSIONI

Bando ai meri impressionismi di sorta. Tra le molteplici imputazioni di cui questo panettone fuori tempo massimo dovrebbe rispondere, una, in particolare, pare sintomatica della situazione attuale di molto cinema americano mainstream: l’evidenza lampante della struttura tramica e la conseguente, totale e rassicurante, incapacità di stupire, o di rivolgersi ad un pubblico minimamente reattivo. Non sono tanto i luoghi comuni a cui la commedia normalmente si appella a risultare in dissonanza con qualsiasi forma pensabile di intelligenza, ma l’ottuso e goffo rincorrersi di battute e situazioni alla ricerca dell’assoluta compiutezza e leggibilità del quadro: The holiday viaggia su due doppi binari (Diaz/Law, Winslet/Black) alla continua ricerca di un parallelismo, anche (e soprattutto) interno, mascherato saltuariamente da vaga contrapposizione.

L’inizio sintetizza bene il doppio movimento:
(Perdonate l’elementarità disturbante della prosa, ma ci si adegua all’oggetto in questione)
1) Inghilterra. La romantica e timida Iris ama Jasper. L’attività lavorativa che condividono è causa dell’ ammirazione di lei nei confronti di lui. Iris, vittima dell’ingenuità, viene abbandonata da Jasper, che sta per sposare un’altra.
2) USA. L’ambiziosa e spigliata Amanda convive con Ethan, probabilmente non amandolo. L’attività lavorativa che condividono genera l’indifferenza di lei nei confronti di lui. Amanda intuisce il conseguente tradimento di Ethan e lo lascia.

Didascalicamente:

Iris e Amanda (personalità opposte) vivono quindi due situazioni asimmetriche e rapporti di forza contrastanti (non per nulla nella parte inglese Iris è costretta materialmente a guardare Jasper sempre dal basso verso l’alto, mentre nella parte americana è Amanda ad occupare la zona alta dell’inquadratura), che le porteranno ad una identica situazione di partenza: il bisogno (dettato ovviamente da fattori differenti) di fuggire dalla propria vita.

Scambiatesi le rispettive dimore, le due protagoniste, oltre ai rispettivi stati di gaudio e disagio del caso, dovuti alla nuova contestualizzazione, affrontano l’inserimento di personaggi questa volta speculari alla loro personalità, dei quali non potranno che innamorarsi: 1. Inghilterra Amanda incontra il fratello figaccione di Iris à i due si congiungono nell’idillio dell’amore occasionale à solamente in un secondo momento approfondiscono la conoscenza à finché si innamorano, soprattutto perché portatori di esperienze simili: Amanda, figlia di genitori divorziati (nucleo familiare denominato “I Tre moschettieri”), scopre che Graham, rimasto vedovo, ha due figlie (nucleo familiare denominato, guarda caso, “I Tre moschettieri”) à ora, naturalmente, non potranno più lasciarsi, resuscitando la concezione di “famiglia”. 2. USA Iris incontra l’amico sfigato di Amandaà i due iniziano a conoscersi à ma, perché il destino si compia, è ovvio che a Miles debba succedere qualcosa di simile a quanto accaduto ad Iris à cosa che inesorabilmente si verificaà perciò i due non possono far altro che innamorarsi. Il parallelismo tra la situazione inglese e quella statunitense, basato sul contrappunto apparente (unione/scoperta vs scoperta/unione, la mediazione dell’infanzia nel primo caso, quella del vecchietto sceneggiatore nel secondo) si lega ad una specularità che per compiersi introduce l’opera nei meandri di una prevedibilità disarmante: oltre all’esempio dei “Tre moschettieri”, oltre all’abbandono subito da Miles, è emblematica l’affermazione di Amanda (“Dal giorno in cui i miei si sono lasciati non ho più pianto”) che si trasforma nell’aspettativa, puntualmente soddisfatta, di vedere piangere Amanda in un’occorrenza similare. Svelatavi ormai, quasi nella sua totalità, la trama, tralascio altri macroscopici indizi di una tendenza tranquillizzante sino all’atarassia nei riguardi dello spettatore, testimone passivo di una struttura di cui carpisce immediatamente le colonne portanti, costretto poi allo stato amebico davanti all’insistente sfilata di stereotipi, tradizionali nel senso più deteriore del termine. Il titolo italiano, andando ad esplicitare il tema centrale (“l’amore”), estremizza la scarsa propensione a fidarsi, anche solo vagamente, del pubblico. Il resto lo si può lasciare alla dimensione dell’elenco: regia fortunatamente invisibile, cast adeguato, ma con riserve (Jack Black nel ruolo di Miles ha un coefficiente di credibilità sotto lo zero), una confezione soffocante per quadratura. Per trovare qualche stimolo, nella commedia di matrice hollywoodiana, si prega di rivolgersi altrove, ai finali di graffiante banalità dei pur non del tutto riusciti “Ti odio, ti lascio, ti…” o di “Vizi di famiglia”, perché questo ”The holiday” è unicamente etichettabile, mi si permetta la classica metafora organica, come “corpo morto”.

Finora il film, da regista, meno artificioso di Nancy Meyers. Almeno nei primi tre quarti d’ora riesce a replicare il modello, cui guarda sempre, di James L. Brooks, sfruttando grandi attori e rifacendosi al cinema classico, citato e stra-citato, in primis dallo sceneggiatore interpretato da Eli Wallach, che consiglia alla Bridget Jones di Kate Winslet, pellicole con donne toste per riprendere in mano la propria vita. Dettagli e tic rendono amabili i personaggi mentre la loro vita, frullata da momenti duri, concede loro una seconda possibilità. Purtroppo, Meyers è Meyers: ad un certo punto, sottolinea ed enfatizza il materiale, i paralleli schematici, le carinerie (il vecchio adorabile, il Natale alle porte, le bambine senza madre: suvvia…) e, ovviamente, tutto l’armamentario per portare il pubblico femminile, che si dovrebbe identificare con le protagoniste affrante ed in cerca di un nuovo compagno, ai fazzoletti e ai tuffi di cuore sospirati. La freschezza degli interpreti e certe intuizioni di sceneggiatura non meritavano tali schemi precostituiti per ammiccare e incastrare le situazioni. Anche la manipolazione è un’arte, non un software cui aggiungere note musicali.