TRAMA
Anna, un’ostetrica di origini russe, rimane turbata dalla tragica vicenda di una adolescente morta dando alla luce il suo bambino, e intende rintracciare la famiglia d’origine della ragazza affinché si prenda cura del piccolo orfano. Il diario personale della ragazza, scritto in russo, potrebbe aiutare Anna nella sua ricerca della verità.
RECENSIONI
Cronenberg, sotto l'abito disegnato del progetto, è nudo e crudo e si applica allo script. Cronenberg, divelte le vesti, è nudo e crudo, lo è fin dall'inizio: la stilizzata truculenza di uno sgozzamento, una pozza di sangue da rottura di placenta, un neonato gelatinoso a cui viene applicato un respiratore, un cadavere scongelato con il phon, un taglio di dita in dettaglio. La chirurgica macchina da presa di Suschitzky disegna anche Eastern promises, pellicola che è difficile non considerare in rapporto stretto e necessario al precedente a History of Violence, sembrando, questi due film, formare un dittico (e non è solo la questione, ampiamente/inutilmente dibattuta, della serie B e del possibile, teorico aggiramento di una "normale" strategia produttivo-commerciale (Cronenberg Autore che, perdinci, funziona al botteghino - che è all'origine del progetto) in cui i due film dialogano e si confrontano specularmente. Il perno Viggo Mortensen (attore magnifico che sembra tradurre alla perfezione l'algore cronenberghiano, incarnazione sublime della duplicità su cui si fondano entrambe le opere) ricopre un ruolo che pare uguale e contrario a quello di Tom Stall del precedente, invertendosi le coordinate: lì il Male (un Male problematico, pieno di sfumature) che, trasformatosi in Bene, veniva richiamato nel suo vecchio mondo per un ultimo, supremo confronto; qui il Bene (un Bene controverso e torbido, sia chiaro) trasfigurato nel Male ma poi improvvisamente reviviscente, dunque umano. Destatosi dall'ibernazione: salvifico. Un film di metallico rigore, fatto di personaggi (e ambienti, pure: il raffinato ristorante copre qualsiasi nefandezza) che si disfanno della muta (una pelle marchiata da segni (in)confondibili - Nikolai tatuato con i simboli dell'onore sì, ma come bestia da mandare al macello, inconsapevole agnello sacrificale -) e si trasformano, un film che gioca sugli opposti e corre su due basilari livelli (normalità / anormalità) che si incrociano quando Anna incontra il padrone del ristorante (le si apre davanti lo "strano mondo"; comincia una lenta, implacabile analisi dell'ambiente malavitoso fatto di abusi, mutilazioni, sfruttamento) e che, come aHoV, non rinuncia all'ironia straniante di chi percorre la strada del genere, ma tenendosi strategicamente ai margini della corsia.
Scritto da Steve Knight, già autore del copione di Dirty pretty things di Frears, imperniato anch'esso sulla descrizione della Londra invisibile degli immigrati, Eastern promises è sì una carola natalizia come può intonarla Cronenberg (tutto si svolge nei fatidici giorni festivi), lucente, violenta, tesa, ma confezionata come un thriller classico (altrimenti dicasi hollywoodiano) e che dunque affida tutto alla dinamica del meccanismo, con solo l'ombra di un sentimento e (per carità) nessun sentimentalismo. Eastern promises, con l'occhio all'accademia, sfrondato, come il precedente, da certo gridato cascame autoriale (Cronenberg, teorizzatore very clever, certo, ma troppe volte - quasi sempre? - imperfetto traduttore della sua medesima poetica), non privo del riconoscibile virtuosismo, è sicuramente più omogeneo del suddetto, apparendo come granitico blocco narrativo che si snoda senza bruschi cambi di direzione, laddove la secca, imprevista (geniale, lo dico) deviazione di aHoV sorprendeva e spiazzava, ma in cui uguali risultano le modalità di svelamento della trasformazione/svestizione (metaforica e letterale) del personaggio centrale che avviene, improvvisa nella seconda parte (nella magnifica scena del bagno turco - tesa, cruenta, simbolica- Nikolai, l'uomo nudo, dopo la lotta disperata, si dispone in posizione fetale: è lì che assistiamo all'esplicita mutazione/ nuova nascita?). E il finale, nel cuore caloroso della casa, lynchianamente (Blue velvet?) accogliente. Dunque poco o nulla rassicurante. L'ombra di una minaccia.
Si aggiunga il sottotesto, in cui elementi di differenziazione (nazionalità, cultura, sesso) vengono letti come chiavi del Disagio, subculture che incrociano altre subculture, vissute con orgoglio/viste con disprezzo, ciascuna costituendo una marca (s)qualificante, la squadra in cui giocare (la prova di virilità, il Chelsea - il presidente è Abramovich, non dimentichiamocene -, il test di fedeltà), il popolo o la famiglia (la Famiglia) da non tradire. Un incrocio di tematiche, che si riflette nel miscuglio che risulta essere questo film radicalmente contemporaneo, in cui la malavita è polverizzata e entra in ogni ingranaggio (la mafia russa sintesi della brutalità di oggi), in cui la polizia non esiste, opera meticcia come i nostri tempi, appunto, diretta da un canadese, scritta da un inglese, e ambientata in una Londra dove personaggi di origini russe, diversamente/egualmente sradicati, vengono interpretati da australiani (Watts), statunitensi (Mortensen), francesi (Cassel), tedeschi (Mueller-Stahl, stupendo), polacchi (Skolimowski), inglesi (Cusack), scelte di casting ovviamente studiate che impongono una visione del film rigorosamente in originale, per saggiare come ciascuno di essi pieghi (muti?) il proprio idioma originario alla cadenza russa, per apprezzare fino in fondo il superbo lavoro che il regista fa, comè suo costume, col parco attoriale a sua disposizione.
Eastern Promises è un film terminale. Rapprende sui fotogrammi l’immagine finale della civiltà. Assimila gli uomini a sepolcri ambulanti. Marchia la pelle di segni funerari. Significa attraverso la morte. Non c’è più carne: diversamente dalla precedente filmografia cronenberghiana, i corpi non sono più luoghi di elaborazione del senso, sono masse di ghiaccio (il cadavere surgelato di Soyka) o statue di pietra (la posa di Nikolai durante la promozione a capitano), tavole sulle quali incidere simboli (i tatuaggi come storiografia e condanna). La teratologia ha infine ceduto il passo alla necrologia, la metamorfosi è terminata: non resta che l’immanenza del potere, impassibile di fronte all’accidentale succedersi degli eventi. Il potere è distante, immateriale, imperturbabile. Uno sguardo che contempla con raggelante fissità la macabra celebrazione della sua magnificenza: indifferenza della forma. Cronenberg, giansenista, riprende tutto con teoretico rigore (“In questo campo il pericolo più grande viene dalle cose più stupide, non puoi permetterti la più piccola disattenzione”, pontifica Semyon, glaciale figura di auctor in fabula): scannamenti e nascite, cerimonie e ferocia vendicativa, fedeltà e doppi giochi. Guardate come i tagli delle inquadrature non assecondano il tenore degli eventi, osservate come i movimenti di macchina non si conformano alla materia rappresentata: lo sguardo “immana” il potere, si distanzia dalle cose. Anzi, ne è la distanza. La promessa dell’assassino è l’ultimo film di Cronenberg. Letteralmente, simbolicamente, cadavericamente. Un film girato dall’obitorio.