Drammatico, Raiplay, Recensione

IL GIOCO DEL DESTINO E DELLA FANTASIA

Titolo OriginaleGūzen to sōzō
NazioneGiappone
Anno Produzione2021
Durata121'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Tre episodi.
Magia (o qualcosa di meno rassicurante). Meiko si rende conto che l’uomo che ci sta provando con la sua migliore amica è il suo ex ragazzo.
Porta spalancata. Uno studente  bocciato architetta un piano per far licenziare un professore universitario.
Ancora una volta. Due donne si incontrano casualmente in un centro commerciale. Sembrano riconoscersi…

RECENSIONI

Con Gūzen to sōzō si stabilizza la cifra autoriale di Ryusuke Hamaguchi, esponente di punta dell'ultima vague niponica, premiato per questo film con l'Orso d'Argento e collezionista di premi assortiti a Cannes e Locarno. Come capita a moltissimi, una formula critica privilegiata, di quelle passepartout che stanno su tutto e non impegnano, è rimasta appiccicata a Hamaguchi: lui è il Rohmer giapponese. A mio parere si tratta di una categoria utile a stabilire un paragone significativo e trovare analogie e divergenze, ugualmente numerose, benché tutt'altro che esaustiva. Il secondo regista cui spesso viene associato è il sudcoreano Hong Sang-soo con il quale condivide focus al femminile, estetica diafana e programmi di festival. Rohmeriano è sicuramente il concept generale di film parlato che ruota intorno a intrecci amorosi, la passione indagatoria per il caso opposto al destino, alla predestinazione. Cambiano atmosfera e peso: se i film di Rohmer si svolgono in atmosfere controllate nelle quali la gravità è sospesa e nessuno sembra farsi mai male veramente, non può dirsi lo stesso dei piccoli mondi creati da Hamaguchi che possiedono un grado più elevato di realismo in senso stretto. Non si trova neppure la programmaticità degli studi di carattere rohmeriani né la leggerezza sardonica con la quale li nutre di cattiva fede e autoinganni. Nel cinema di Hamaguchi ci sono gioco, destino e fantasia ma fino a un punto che non arriva mai al racconto morale. Coerentemente, su un piano visivo, i toni lattei, tendenti al bianco, la luce naturale fredda, la grana rarefatta e traslucida, si allontanano molto dalla palette pastello o dai colori primari e dai verdi accesi amati dal maestro francese. In termini estetici il paragone con Sang-soo è molto più centrato.

È un film in tre episodi, collegati dalle note di Schumann (unico tratto di colonna sonora che, altrimenti, non interviene mai a "sporcare" di extradiegetico la nostra attenzione verso ciò che accade, in primo luogo i dialoghi - e questo è effettivamente molto rohmeriano). Si tratta di un crescendo: il primo quadro, Magic or something less assuring è un triangolo amoroso molto convenzionale e già visto dove, da un punto di vista narrativo, non troviamo nulla di particolarmente stimolante, tanto meno il "colpo di scena". Il punto di vista e narrazione subito sbilanciato e monopolizzato da una sola parlante già lascia intendere malintesi e complicazioni. Di conseguenze il diavolo si sposta nei dettagli: in un frammento programmatico di discorso, "non sapevo che la conversazione potesse essere tanto erotica", e nell'ultimo frame, apparentemente disgiunto e extravagante: una foto scattata con l'iphone dalla ragazza "perdente" a una scena urbana di lavori in corso, come spesso si vedono a Tokyo. È un segno formale - una sorta di sipario aperto su un fondale - e dice che abbiamo assistito a una ouverture e che l'impostazione del film, più che a episodi, è a movimenti, come una partitura.

Nel secondo, Door wide open, il caso e il destino giocano alla variazione su un tentativo di ricatto e vendetta escogitato da una studentessa e il suo giovane amante nei confronti di un professore appena insignito di un importante premio letterario. Se questo segmento è avvincente, intrigante anche se preso alla lettera, le cose più interessanti ancora una volta stanno nell'iper e nel meta. Il confronto tra la donna e il professore diventa una messinscena di un cambio di paradigma radicale attuato da Hamaguchi nei confronti di un punto focale nell'ethnos, nella letteratura, nel cinema giapponese: il rapporto col sesso. Assistiamo a una rivoluzione. Il romanzo, provocatoriamente letto in faccia al professore, lo inchioda come tradizionale e superato: un uomo incapace di agire la sessualità che si rifugia nel perverso sade-batailliano come sublimazione dell'inibizione - non serve fare il lunghissimo elenco di antecedenti, assortiti nei toni e nei temi, da Ecco l'impero dei sensi al cinema di Watanabe; da Tampopo a Tsukamoto e Miike: il cinema giapponese è storicamente o completamente assessuato o ipersessualizzato, nel mezzo il nulla. Ciò che colpisce, in questo come nel precedente episodio, è il tono sex positive, la naturalezza aproblematica, la linearità con la quale i giovani protagonisti coetanei del regista accostano il tema e accostano i reciproci corpi. È uno dei segni più interessanti che possiamo leggere nel nuovo cinema giapponese se vogliamo investirlo di qualità aruspicine nei confronti della società post-Fukushima. Non è per niente contradditorio che lo stesso personaggio sia l'autore delle pagine piccanti - che per altro confessa di aver scritto "perché è quello che vuole il mondo", che ci si aspetta dal Giappone nell'ambito - e quello della "porta sempre aperta", il continuatore di un mos maiorum, di un'etica della trasparenza e dell'irreprensibilità.

Stabilito che si tratta di un film dalla struttura musicale - da camera, non certo un'opera, come conferma anche la scelta di Schumann - l'ultimo episodio, Once again è il gran finale. Comincia da un presupposto utopico/distopico (dipende dal punto di vista), uno stratagemma alla Black Mirror il che conferma la libertà dell'autore quando si tratta delle aree dove pescare l'elemento fantastico reagente per il diorama naturalista. L'innesco è un attacco hacker che ha tolto internet dal mondo riportandolo a quel 1998 che è l'anno fatidico per il racconto, l'anno in cui entrambe la protagoniste hanno perso i contatti con una persona speciale che il tempo ha rivelato la persona più importante della vita, il primo amore rivelatorio o l'incontro decisivo. Un'altra sorpresa che potremmo ascrivere tra gli indizi a proposito del nuovo Giappone è il tema semi-inedito dell'omosessualità femminile, trattato nel modo più naturale, quando la cinematografia locale, forse appoggiandosi sulle spalle del monumento Mishima, è piena di uomini omosessuali ma piuttosto povera di lesbiche esplicite. Ora la figura della ruota, citata dal titolo, è in piena evidenza perché saliamo su un rollercoaster di colpi e ribaltamenti di scena, il cui fine è giungere al punto in cui conta sempre meno - anzi, non importa più nulla - come stanno davvero le cose, quale sia la verità, rispetto alla realtà soggettiva che due persone costruiscono a misura delle reciproche esigenze affettive e condividono. Si definisce anche il ruolo reciproco di fortuna e fantasia, intesa come creatività esistenziale, capacità di plasmare i fatti. Quello messo in scena dalle due donne è un vero e proprio psicodramma, che si muove lungo un dialogo fitto di momenti letterari sinceramente toccanti (si pensa ora Virginia Woolf, ora al finale de I morti di Joyce e così via), una commedia degli equivoci spinta al limite in cui la soluzione dell'enigma perde ogni interesse. Conta solo trovare le parole necessarie a curare le ferite dell'altro. È questa la chiave del cinema profondamente umanista di Hamaguchi, meno entomologicamente acuto di quello rohmeriano, meno complesso e sottile, ma in grado di sprigionare un grande calore (bianco), una grande empatia.