Documentario, Recensione, Sala

IL RAGAZZO PIÙ BELLO DEL MONDO

Titolo OriginaleThe Most Beautiful Boy in the World
Fotografia

TRAMA

Documentario che ripercorre la carriera e la vita di Björn Andrésen, l’angelico Tadzio di Morte a Venezia di Luchino Visconti.

RECENSIONI

The most beautiful boy in the world è un testo secondario appoggiato a altri testi. Innanzitutto, ovviamente, Morte a Venezia, il capolavoro di Luchino Visconti che riuscì a adattare in una forma visiva assoluta un testo quasi impossibile, la novella-mondo e archetipo di Thomas Mann in larga parta rapsodia all'interno della scatola cranica di Gustav con Aschenbach, per farne il suo film più personale fino allora, quello in cui trova il coraggio di far decadere definitivamente il Super Io marxista e lasciar dilagare un Es decadentista, che trova il suo piacere nell'avvinghiarsi sadomaso di morte e bellezza. Visconti sintetizzò il senso della sua operazione - e dell'opera di Mann - con lo slogan icastico: "to put the eyes on beauty is to put the eyes on death". Ironicamente e tragicamente si tratta anche di una involontaria profezia biografica per il protagonista del film, il sedicenne svedese Björn Andrésen. La citazione viene dal secondo testo, meno celebre: il documentario Alla ricerca di Tadzio prodotto dalla RAI e diretto dallo stesso Visconti nel 1970, un anno prima dell'uscita di Morte a Venezia.  È la cronaca della lunghissima quête del regista tra Nord e Est Europa alla ricerca del corpo e volto adolescente del perfetto angelo della morte che è il Tadzio di Mann/Visconti. Speculare ai temi del romanzo - e testimone della assoluta identificazione viscontiana nel suo clima, nel suo senso, fino alla lettera - la trafila di città e provini mostra il regista compiere una specie di viaggio eroico, immolarsi alla ricerca della bellezza, fino all'incontro fatale, in una stanza d'albergo di Stoccolma, con il giovane biondazzurro Andrésen.

Il documentario di Kristina Lindström, Kristian Petri è un'opera militante che si appoggia agli antecedenti per contestarne radicalmente l'ideologia e la mitologia, rileggendoli secondo una sensibilità nuova e soprattutto ribaltando soggettività e agency: lo scopo dichiarato del film è riscattare Björn Andrésen portandolo da oggetto passivo - di sguardi, di desideri, di definizioni - a soggetto della propria narrazione e dichiarare centro etico la vittima, non più il genio, l'eroe, l'artista. Sono passati cinquant'anni e Andrésen, inevitabilmente e per sua fortuna, non è più Tadzio ma possiede ancora una fisicità diafana da adolescente e gli stessi sguardi smarriti e imploranti. È al contempo una figura fortemente carismatica, dall'aura intensa benché aleatoria, difficile da precisare, e un ferito verso cui siamo mossi a compassione, a soccorso. La sua biografia, in parte nota a chi ha letto il pamphlet La vera di storia di Tadzio di Gilbert Adair, lascia a bocca aperta. Rimasto orfano, il ragazzino introverso, pensoso e genericamente portato alla creazione artistica viene affidato a una nonna ambiziosa che lo infila in ogni provino in zona Stoccolma. Fino a quello fatale, che piegò l'arco biografico e, probabilmente, lo spezzò. Il set veneziano fu tutto sommato sereno per il sedicenne ignaro di essere protetto da un diktat viscontiano alla troupe in gran parte omosessuale, che intimava di non toccare il ragazzo "fino alla fine delle riprese". Nella fase di promozione del film - e in particolare il debutto al festival di Cannes - si spalancarono le fauci dell'inferno perché venne meno la protezione viscontiana, sostituita da un certo sadismo cannibale per cui il regista era ampiamente noto. Non soltanto i celebri episodi del gay bar e della conferenza stampa (completamente disturbante vista con gli occhi del 2021, forse normalissima allora) agirono da traumi primari per l'ingenuo Andrésen, anche la stessa etichetta "the most beautiful boy in the world", coniata dallo stesso Visconti, si rivelerà dono avvelenato. La fase successiva è quella letteralmente più incredibile. Spedito in Giappone dalla nonna ansiosa di capitalizzare al massimo il nipote più bello del mondo, Andrésen diventa il primo teen idolo nipponico, suscitando isterie di massa e sedimentando nell'inconscio collettivo al punto di deviare l'iconografia manga. Per esempio Lady Oscar di Riyoko Ikeda ha i suoi tratti somatici. Mentre Tadzio conquistava il Sol Levante, lo sguardo dell'Andrésen reale si faceva sempre più triste mentre incideva insipide canzonette romantiche, partecipava a trasmissioni tv e realizzava sei/sette esibizioni a serata drogato come un cavallo da soma da impresari senza scrupoli. Seguono altre fasi di deriva esistenziale e dramma finché ritroviamo, all'epoca dell'inizio riprese, un uomo dai lunghissimi capelli e barba argento che rischia lo sfratto per le condizioni decisamente non ortodosse del proprio appartamento. Assistiamo - e non solo, dal momento che si tratta di un documentario molto più interventista che observational - al suo "recupero" e alle riprese di Midsommar per cui Ari Aster, genialmente, chiama Andrésen a interpretare il ruolo di un anziano che viene gettato da una rupe per poi avere il cranio (il volto) sfasciato a martellate, in un momento certamente catartico che diverte tantissimo l'ex ragazzo più bello del mondo.

È la figura di Björn Andrésen a prendersi, finalmente, cinquant'anni più tardi, la scena da individuo; è la sua "normalità" ad essere considerata degna di racconto piuttosto che la proiezione iconica, larger than life, del suo bellissimo volto degli anni '70. In un certo senso la riscoperta della sua storia entra in scia con la mobilitazione e produzione mediatica a favore di Britney Spears: epoche e immaginari diametralmente opposti che entrano in risonanza in una denuncia dei presupposti ideologici dello star system, di ogni epoca. The most beautiful boy in the world è una storia incredibile, tanto potente quanto triste, che andava raccontata e non poteva non essere raccontata qui ed ora, sulla scia del movimento MeToo, di cui il caso Andrésen è certamente un antecedente declinato al maschile. È un atto d'accusa contro un'industria e un sistema di potere che usa e scarica corpi, facendone immagini, e si disinteressa alle persone. Forse oltre le intenzioni dei registi, diventa anche un apologo amaro - che fa pensare ai fratelli Coen - sull'esistenza come odissea, sulla deviazione che sembra una svolta e invece è il primo giro di spirale, su come il caso fortunato possa adombrare la tragedia, la catastrofe esistenziale, come gioiosamente o inconsapevolmente si finisca al macello - sono esattamente temi di Morte a Venezia, in una ulteriore duplicazione. Purtroppo è anche un documentario uscito nel 2021 e ne ha tutte le caratteristiche che compromettono problematicità e complessità. Il film definisce dalle primissime battute un asse morale preciso, polarizzato e ipertrofico. Non smette di girarci attorno e non ammette defezioni perciò distribuisce ogni materiale da una parte o l'altra, sottolinea didascalico attraverso stratagemmi scorretti o quantomeno sgradevoli. Per esempio il predatore Visconti (cattivo) viene accompagnato da montaggi rapidi di espressioni torve e archi drammatici; al contrario quando i registi (buoni) convincono Björn Andrésen a tornare nella foresta dove la madre si è tolta la vita oppure consultare il fascicolo giudiziario sul rinvenimento del cadavere è tutto condito da note emo di pianoforte. Lo spettatore non è mai lasciato libero di farsi un'opinione autonoma osservando i documenti ma costantemente guidato, imboccato, infantilizzato, arruolato. Un documentario è cosa e come: metà trovare la storia, metà raccontarla. The most beautiful boy riesce quindi soltanto a metà ma non è isolato, si tratta di un problema endemico al documentario contemporaneo.