Biografico, Focus, Raiplay, Recensione

QUI RIDO IO

TRAMA

Agli inizi del ‘900, nella Napoli della Belle Époque, splendono i teatri e il cinematografo. Il grande attore comico Eduardo Scarpetta è il re del botteghino. Il successo lo ha reso un uomo ricchissimo: di umili origini si è affermato grazie alle sue commedie e alla maschera di Felice Sciosciammocca che nel cuore del pubblico napoletano ha soppiantato Pulcinella. Il teatro è la sua vita e attorno al teatro gravita anche tutto il suo complesso nucleo familiare, composto da mogli, compagne, amanti, figli legittimi e illegittimi tra cui Titina, Eduardo e Peppino De Filippo. Al culmine del successo Scarpetta si concede quello che si rivelerà un pericoloso azzardo. Decide di realizzare la parodia di La figlia di Iorio, tragedia del più grande poeta italiano del tempo, Gabriele D’Annunzio. La sera del debutto in teatro si scatena un putiferio: la commedia viene interrotta tra urla, fischi e improperi sollevati dai poeti e drammaturghi della nuova generazione che gridano allo scandalo e Scarpetta finisce con l’essere denunciato per plagio dallo stesso D’Annunzio. Inizia, così, la prima storica causa sul diritto d’autore in Italia. Gli anni del processo saranno logoranti per lui e per tutta la famiglia tanto che il delicato equilibrio che la teneva insieme pare sul punto di dissolversi.

RECENSIONI

AL DI LÀ DEL COMICO E DEL TRAGICO

Prima di avvicinarsi all’ultima opera di Martone, è utile ricordare due cose di uno dei suoi film precedenti, Noi credevamo. Una ha a che fare con la forma, l’altra col contenuto.
Il lungometraggio del 2010 sposava l’opinione diffusa secondo cui l’unificazione sia stata una sorta di colonizzazione del Sud, da parte del Nord. Lo stesso presupposto informa Qui rido io. D’Annunzio non è che la testa di ponte attraverso cui la borghesia imperialista cerca di soffocare l’auto-espressione del popolo partenopeo. Ma Napoli, si sa, non ha aspettato la modernità per poter essere postmoderna e postcoloniale, per cui Eduardo Scarpetta reagì nel modo che il guru del postcolonialismo Homi Bhabha decenni più tardi chiamerà mimicry: l’identità dell’oppressore è assunta “en travesti” (Scarpetta costruisce pure una tenuta sul mare dalla facciata assai simile a quella della dimora di D’Annunzio) per trasformarla parodicamente in differenza, come rivendicazione dell’identità dell’oppresso. Autore di commedie popolari che (se ne era accorto persino Gorky) non avevano bisogno di esibire forme tragiche per essere tragiche, perché erano espressione diretta della sofferenza del popolo, Scarpetta parodiò la dannunziana Figlia di Iorio per rivendicare l’inseparabilità di comico e tragico che gli impomatati collaborazionisti napoletani del Vate volevano, invece, separare con i loro drammoni orientalisti alla Assunta Spina.

Nonostante la loro retorica, coloro che vogliono rappresentare il popolo separando la tragedia dalla commedia falliscono, perché in questo modo mancano la vera anima napoletana. Essa non è né comica né tragica, ma è, al di sotto del carnevale quotidiano, quella sostanza neutra, vuota, fredda come il marmo che fa da cuscinetto tra comico e tragico come fosse l’articolazione meccanica tra braccio e avambraccio del futuro Totò-marionetta. Cavalcata la Storia per qualche tempo, Scarpetta se ne trova disarcionato, destinato ad essere mandato in soffitta come il suo Felice Sciosciammocca mandò in soffitta Pulcinella; per giunta, capisce molto presto che la sua eredità, se mai verrà raccolta (e lo sarà), non sarà comunque nel modo da lui previsto e auspicato. E lì, Scarpetta tocca quella neutralità, quel vuoto freddo come il marmo: impossibilitato dagli eventi ad essere quel personaggio tragico che la Storia lo ha fatto diventare, si rassegnerà ad indossare obtorto collo quella maschera comica che è la sua sola arma vincente nel processo contro D’Annunzio. E mai come in quel momento, toccando quella neutralità, Scarpetta si è trovato più vicino al suo popolo: prova ne è la bellissima scena in cui lui prende e se ne va a trovare i lumpenproletari parenti di una delle sue attrici, così, sedendosi al tavolo senza avere nulla da dire. Vicinissimo a loro non “nonostante”, ma SOPRATTUTTO perché non ha nulla da dire loro.
Il film, dunque, si propone di guardare a Scarpetta da molto vicino per poter cogliere la catastrofe DENTRO il trionfo totale di una vita intrinsecamente comica, perché è una vita in cui tutto si aggiusta pragmaticamente: le mogli con le amanti, gli avversari sedotti a colpi di tarallucci, vino e canzoni, e un processo vinto gloriosamente.

Qui entra in gioco la forma del film. Come Noi credevamo cominciava come un melodramma a forte rischio di soap opera RaiCinema, solo per poi permettersi nella seconda metà un’antinarratività ai limiti dello sperimentale, così, con un travestitismo strumentale che la commedia conosce da millenni, Qui rido io comincia con un annodarsi del tutto tradizionale tra Arte e Vita, attentissimo a citofonare didascalicamente allo spettatore tutti i riferimenti storico-biografici del caso – solo per poi deragliare completamente appena entra in scena Peppino de Filippo, uno che già da bambino era più Beckett di Beckett grazie all’inumana forza di inerzia, assonnatamente post-apocalittica, da lui incarnata. A quel punto, il film si sfilaccia in mille rivoli: nessun conflitto diventa asse portante della drammaturgia, non il processo, non il dramma edipico col figlio Vincenzo, non la violenta opposizione della madre di Eduardo de Filippo a che lui segua le orme di un padre (Scarpetta) che lo ha mezzo rinnegato. Materializzando il punto cieco della vita di Scarpetta (Peppino, l’unico dei figli non riconosciuti mandato in campagna da una balia anziché essere ammesso nella famiglia allargata), il film diventa un insieme di notazioni puntiformi che rifiutano di coagularsi in linea narrativa, tenendosi a una mera coordinazione priva di verticalizzazione strutturale. Distruggendo la storia che sembrava star raccontando così tradizionalmente, il film riesce a materializzare la neutralità cui si accennava poc’anzi, quella definitivamente antidrammaturgica, al di là del tragico e del comico, toccata da Scarpetta nel suo momento di massima napoletanità, troppo intensa persino per il palco, ed annunciata già nei primissimi minuti di Qui rido io, quando dello Scarpetta che si avvia ad entrare in scena si sottolinea soprattutto l’andatura trascinata, pesante, inerziale. Una neutralità che farebbe pensare a Blanchot, se non venisse in mente subito dopo che chi parla di postmoderna “fine della Storia” è solo uno che evidentemente non ha conosciuto quell’impaludamento di certe domeniche pomeriggio post-prandiali restituito invece alla perfezione da Martone in una delle scene-chiave del suo film.

Perché il punto è ancora e sempre quello: Napoli non ha aspettato la modernità per poter essere post-strutturalista. La critica (post-strutturalista) della patrilinearità è tutta già in questo patriarca scisso tra casa e amante, tra comico e tragico, e tra questi due e il neutro, che alla generazione successivi di figli mai completamente riconosciuti passerà proprio una scissione che non riesce più a ricomporsi nel modo in cui lui riusciva a ricomporla. Perché l’eredità di Scarpetta toccherà non a un figlio che edipicamente lo sostituisce, ma a due: Peppino con la sua abissale, oltreumana neutralità, ed Eduardo che farà un teatro unico al mondo in cui l’abisso si nasconde ad ogni angolo, ma sempre viene valicato dai pazienti ponticelli costruiti dall’idiosincratico pragmatismo di una piccola borghesia antiprogressista unica al mondo. Ben prima di Deleuze, immagine-tempo e immagine-movimento, l’interruzione assoluta e l’interruzione funzionale alla ricostruzione dei nessi, erano già tutte lì – con Titina a ribadire che il femminile è l’unica sintesi possibile della duplicità maschile in cui si è spaccato il patriarca-Scarpetta.

Non tutto, per la verità, riesce a passare dalla carta allo schermo. Il pur grandissimo Renato Berta è lasciato a briglia sciolta, e si scatena con luci e colori gagliardamente artificiali che funzionano benissimo a livello di aspetto féerique da conferire alle singole scene, ma tolgono compattezza visiva al film nel suo insieme. Martone, da un pur straordinario Toni Servillo, cerca di estrarre il Carlo Cecchi che è in lui (lui sì, maestro inarrivabile di neutralità attoriale fredda come il marmo), riuscendoci in realtà solo a singhiozzo. Qua e là, anche nella seconda parte, scene che avrebbero ricevuto più efficacia da un trattamento più arioso vengono limitate al loro contenuto informativo (Scarpetta accanto a Castel Dell’Ovo, o nei vicoli nei momenti più bui della sua parabola). Ma poco importa. O forse importa nella misura in cui in questo film, che manca così platealmente di unità, appare persino quel Benedetto Croce per cui l’unità estetica era così importante. Perché quel Croce che gli dimostra che per vincere in tribunale dovrà separare commedia e tragedia, per identificarsi in toto con la prima, Scarpetta lo segue fino a un certo punto. Ciò che resiste, inappropriabile, alla falsa divisione tra commedia e tragedia è ciò che definisce Scarpetta al di là della sua maschera, ed è ciò che lo avvicina al suo popolo. Cogliendo e restituendo questo, Martone firma uno dei film in apparenza più lontani ma in realtà più vicini all’idea gramsciana di intellettuale: uno dei pochi film italiani degli ultimi decenni (un altro è La mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco) capaci di avvicinarsi all’idea gramsciana di intellettuale nel modo più giusto, ovvero nel modo dialettico.

EDUARDO II

VICIENZO: Siente, si tu vuò rimane certo dinto a sta casa, haje da dicere che io te so’ patre; e quanno lo patrone t’addimanna: «Vicienzo che t’è?» tu haje da risponnere: M’è patre, eccellenza. Haje capito?
PEPPENIELLO: Vuje abbasta che me facite magnà, io ve chiammo pure mamma!
VICIENZO: E chiunque t’addimanna haje da dicere sempe che me sì figlio.
(Miseria e nobiltà - Eduardo Scarpetta)

Martone parte dall’avanguardia: con Toni Servillo e Antonio Neiwiller fonda Teatri Uniti nel 1987, un’esperienza laboratoriale, di teatro inquietamente in fieri, che attraversa testi e autori diversissimi per contaminarli con linguaggi altri: quelli della musica, delle arti visive, della danza. È in questo approccio riformatore che va paradossalmente visto il punto di congiunzione con quello che oggi viene letto come teatro di tradizione (Scarpetta prima, De Filippo poi), ma che all’epoca di tradizione non era affatto, anzi. Insomma Martone nel suo percorso artistico non parte da Eduardo, come ci si aspetterebbe da un regista partenopeo, ma ci arriva oggi, pur avendolo presupposto sempre, proprio per quella sua propensione alla sperimentazione. E ci arriva prima con l’allestimento teatrale di Il sindaco del rione Sanità e con la sua versione cinematografica (per i quali rimando alla relativa trattazione), poi con questo Qui rido io. Che, certo, è incentrato sulla figura patriarcale di Eduardo Scarpetta, ma che può essere letto come un viaggio alle origini dell’opera eduardiana. Un prequel e una teoria di chiavi di lettura del canone di De Filippo. Perché fu Eduardo a ragionare - come ha fatto anche Martone nei suoi allestimenti e al cinema con Teatro di guerra - sulla messa in scena e sulle sue logiche (per tutti L’arte della commedia, un vero e proprio programma artistico, il suo credo). Alla luce di ciò, il prologo del film - la rappresentazione del capolavoro scarpettiano Miseria e nobiltà - lo guardiamo con gli occhi del piccolo Eduardo, implicito protagonista del film: è un momento cruciale di denudamento del meccanismo della messa in scena e, nello stesso tempo, il preludio alla congiunzione epocale del futuro genio con il palcoscenico. Quello di Eduardo nel ruolo di Peppeniello è un vero e proprio battesimo, un rito di passaggio a cui tutta la prole scarpettiana, condannata al teatro, deve sottostare. È stato così per Vincenzo e poi per Titina, che viene sostituita dal fratello Eduardo. E lo sarà alla fine per Peppino. Anche Luca De Filippo debutterà in quel ruolo, in un successivo allestimento di Miseria e nobiltà firmato dal padre Eduardo, quasi a tramandare, per quella via obbligata, la magnifica ossessione. 

GAETANO: Tu sì figlio a Vicienzo?
PEPPENIELLO: Sissignore, isso m’è patre a me!
GAETANO: E se capisce! Si tu sì figlio a isso, isso ha da essere patre a te.
(Miseria e nobiltà - Eduardo Scarpetta)

Insomma Scarpetta è sì il protagonista esplicito del film, il centro della tribù a cui dà vita (il Padre Caos come lo definisce lo stesso Martone, sottolineandone la natura quasi mitologica), ma la sua vicenda umana è anche il prodromo indispensabile per leggere dentro l’opera eduardiana.
Così, del momento delle prove, quello che mi colpisce di più è il silenzio del bambino alla domanda «Tu a chi sì figlio?», guardando la madre in platea. E poi l’abbraccio di Peppeniello/Eduardo a Sciosciammocca/Scarpetta, sull’esclamazione: «Uh! papà!».
Papà dice il bambino al genitore naturale. Un appellativo che gli è concesso solo nella finzione della commedia (ma l’abbraccio è vero), ché nella vita reale quel padre lo chiama «zio». La questione dei padri e dei figli, di una paternità da riconoscere o recuperare, come la vediamo nell’opus eduardiano (dal Sindaco a Filumena Marturano) era già (autocriticamente?) presente nella confusione dei ruoli che domina gli equivoci di Miseria e nobiltà (in cui Felice Sciosciammocca, sposato con Bettina, vive con Luisella, corteggia altre donne e, abbandonando il figlio al suo destino, lascia che si trovi un altro “padre”). E che riflettono, a loro volta, quelli della famiglia allargata - e perciò scandalosa - di Scarpetta che sfida ogni convenzione sociale («Int’a sta casa ‘u scuorn non sapimm’ che d’è. Non lo abbiamo mai saputo e non lo sapremo mai»). Un gioco di rimandi che persiste in Qui rido io - film in cui Martone sovrappone palco e vita fino a renderli indistinguibili e che, nel suo respiro popolare, sa proporre questioni teoriche e riflessioni artistiche ed estetiche a ogni sequenza. A cominciare dai titoli di testa, immagini della Napoli di Scarpetta, girate dai fratelli Lumière nel 1895, l'alba del cinema.

GAETANO:  Dimme na cosa? Tu a chi sì figlio?
PEPPENIELLO: Vicienzo m’è patre a me!

GAETANO: Mò te dongo nu schiaffone!... Nun è overo!... Chesto te l’hanno mparato. Pateto è chistu ccà! (mostrandogli Felice)
PEPPENIELLO (voltandosi): Uh! Papà!
(Miseria e nobiltà - Eduardo Scarpetta)

CORTE DEI MIRACOLI

Quanti film in uno solo, Qui rido io. “Sfogliarne” artificialmente i piani, come richiede lo sforzo critico e analitico, significa tradirne la natura intimamente interconnessa (come quando, per trasferire un mappamondo su un planisfero, ci si trova costretti a creare suture laddove non ce ne sono, o a ingigantire mostruosamente un polo a discapito dell’altro). Eppure, bisturi alla mano, procediamo, e sul tavolo autoptico troveremo quanto segue: un biopic limpidissimo, ma mai didascalico, ad arricchire di un altro ritratto l’ambiziosa galleria martoniana dedicata ai fondatori dell’Italia moderna; un film in costume di viscontiana densità, per la penetrazione profonda dello Zeitgeist e della sua cultura visuale; un melodramma familiare – speculare a quello che Scarpetta e famiglia mandano in scena ogni sera, in una miracolosa fusione tra arte e vita – su un padre padrone veterotestamentario, o forse ancora più antico (non ricorda, Eduardo Scarpetta, quell’Urano della cosmogonia di Esiodo che feconda senza sosta ma poi soffoca i suoi figli, impedendo loro di vedere la luce?). Infine, Qui rido io è un procedurale: fino al fiammeggiante epilogo in tribunale (che mette in luce la natura eminentemente spettacolare della giustizia e delle sue cerimonie), il film è punteggiato di riflessioni su copia e originale, arte e mestiere, burla e blasfemia. Scarpetta ha plagiato D’Annunzio, o ha esercitato il legittimo diritto a farne una parodia? E per cosa è veramente imputato? Per aver osato farsi gioco di un Vate notoriamente privo di autoironia o per non averlo fatto abbastanza bene? È squisitamente ottocentesco il vocabolario con cui Martone mette in scena i termini della disputa, ma è modernissima la lucidità con cui ne individua la vera natura: il caso D’Annunzio-Scarpetta esplicita, con chiarezza enunciativa degna di un Bordieu, le gerarchie tra forme espressive, i meccanismi che le perpetuano, la concezione di “legittimità culturale” che esse alimentano. In una sequenza magistrale, lo sgambetto di Benedetto Croce: l’opera di Scarpetta non è illecita; semplicemente, non è bella abbastanza.