TRAMA
Anno 2029. Una stazione spaziale, sulla quale alcuni scimpanzé vengono addestrati a diventare piloti intergalattici, si imbatte in una tempesta magnetica. Uno dei primati viene mandato in avanscoperta a bordo di una piccola navicella, ma scompare nel nulla. Lo segue a ruota l’astronauta Leo Davidson che dopo un atterraggio di (s)fortuna si ritrova su un misterioso Pianeta. Delle Scimmie…
RECENSIONI
Re-make, anche nel make-up, dell’originale sessantottino o una sua “re-immaginazione”, come sembra sostenere lo stesso Tim Burton? Si potrebbe cominciare da qui a parlare di Planet of the Apes, ma sarebbe solo un inizio come un altro, arbitrario, casuale, forse logico forse no. Arbitrario, casuale, (il)logico come il telaio intorno al quale Burton costruisce ogni suo film. O il suo film, lo stesso che continua a girare over and over and over again; lo stesso, identico film sull’eterna lotta (di confine) tra normale e anormale, tra realtà e irrealtà, tra diversi e “uguali”… i ruoli si scambiano, i freaks si fanno norma, le differenze tra palesemente in e palesemente out rispetto a consuetudini che mutano in canoni, regole, assiomi si annullano. Questa apologia della diversità si ripete in tutti i film di Tim Burton, con immancabili, apparenti eccezioni (doverosa conferma della regola: vedi Mars Attacks, in cui l’estremizzazione parodica della diversità per antonomasia [il “marzianesimo"] condanna comunque senza appello l’infinita, normale stupidità umana, per nulla preferibile alla spassosa ferocia aliena), e un passaggio-simbolo nel più burtoniano dei film di Burton: Orson Welles ed Ed Wood parlano di cinema e si scoprono uguali. Chiaro. Come uno stagno senza fango. Come un limpido cielo d’estate sempre blu. Ecco dunque un nuovo rovesciamento in Planet of the Apes: l’evoluzione involve e devolve il Primato ai primati. L’uomo? Normalmente dominerebbe la terra, ora è dominato dai suoi antenati divenuti pronipoti. Questo, c’è da scommetterci, è ciò che interessava a Burton del film di Schaffer, poco importa se la sua nuova fiaba darkgoticheggiante (solita forma che in-forma la solita sostanza) stavolta è gonfiata a mo’ di kolossal. La forma, per l’appunto, non cambia. Così come non cambiano gli immancabili “difetti” del film di Tim Burton: i soliti vuoti di pressione narrativa, la solita inconsistenza drammatica, la solita (programmat[ic]a?) incoerenza della storia, il solito azzeramento di ogni plusvalore recitativo (qui ci si mette di mezzo anche il caucciù), la solita regia qualunque (che nella fattispecie “scimmiotta” l’action movie), i soliti dialoghi inutili con sporadiche frasi burtonianamente significative. I molti estimatori, ci mancherebbe, perdonano tutto e sono ovviamente pronti a esaltare le “ciliegine” (tre in particolare) che il loro eroe depone sulla (solita) torta: il look&feel sixties dato dagli effetti elaborati ma artigianali, dai costumi improbabili (si veda l’abitino postatomicamente sexy della Warren), dalle ingenuità StarTrek-ish (sarebbe bastato agli scimmioni dare una rassettata all’astronave per non chiamare “CA[ution]LI[ve][ani]MA[ls]” le rovine della città proibita); la simbolica comparsata di Charlton Heston che rivela a Tim Ro/Thade la Verità, in quanto ovviamente informatissimo sul passato (del) pianeta (delle scimmie); l'end per nulla happy di sicuro effetto benché difficile da giustificare dal punto di vista della coerenza narrativa (o "infinitamente giustificabile", tirando in ballo improbabili futuri paralleli, cortocircuiti nel continuum spaziotemporale e via e via e via…). Sarà. Ma non sarebbe più intellettualmente onesta un po' di spietatezza col simpatico Tim? E se non fosse altro che un regista "normale" (in senso buono) con un buon talento visivo e poche, condivisibili cose da dire? la sua maniacale apologia della diversità (ma Freaks di Browning è ormai uno splendido settantenne…), il suo gusto per la fiaba dark, le sue scenografie gotiche sempre azzeccate sono forse troppo poco, facendo le debite (s)proporzioni con la fama e il rispetto di cui gode e il gran ben (s)parlare che si ripete puntualmente ad ogni suo film sospinto. Conviene forse prendere il buono che le pellicole di Burton hanno da offrire ma innestare, ogni tanto, il modo dell'indifferenza…
Che senso ha il remake di un film?
Eppure ogni stagione i produttori puntano su una formula che si e' gia' rivelata vincente per sfruttarne il traino, abbinando nomi prestigiosi in regia e qualche volto noto tra gli attori per spruzzare di glamour il tutto. Di solito, quindi, il fine e' prettamente commerciale: battere cassa raschiando il fondo della fantasia!
E qualcosa di simile deve essere accaduto pensando a un rifacimento del grande successo del 1968 di Franklin J. Schaffner. Difficile dare nuovo smalto a un film mitico per l'epoca, ma ormai datato e privo della sorpresa di un capovolgimento dei punti di vista. Il folle tocco di Tim Burton, sempre in bilico tra kitsch e grottesco, non si e' rivelato miracoloso come molti speravano. Il film, infatti, delude sotto tutti i punti di vista. Non convincono ne' la storia, completamente stravolta rispetto all'originale ma con molti piu' buchi logici, ne' le interpretazioni degli attori. Se i servizievoli Tim Roth e Helena-Bonham Carter mantengono intensita' sotto l'efficace trucco di Rick Baker, il protagonista Mark Whalberg e' in perenne distanza dal suo personaggio e Estella Warren ha un ruolo puramente coreografico. Sono proprio i personaggi umani la parte piu' carente del film, a causa di una sceneggiatura colabrodo e banale incapace di renderli vivi. In qualche momento il tocco dell'autore si sente, come nella cena a casa del senatore o quando la piccola scimmietta deve scegliere il suo cucciolo, ma e' ben poca cosa rispetto alla grossolanita' dell'insieme. Anche il colpo di scena finale sembra avere come unico scopo quello di far parlare gli spettatori mentre escono dalla sala. Potrebbe essere una geniale trovata pubblicitaria, visto che il marketing pare l'unico vero mentore di un progetto nato per fare il pienone nei cinema nel primo week-end di programmazione, prima degli effetti devastanti del passaparola.
Burton trasporta nella propria "disneyworld fantahorror" il classico diretto nel 1968 da Schaffner, rendendolo più spettacolare, fiabesco, "dark", crudele, eccentrico, farsesco e sardonico. In realtà altera poco il racconto, allunga il prologo in stile Star Trek e riserva molte sorprese nella parte finale, prima cristologica, poi "blasfema" (il dio inventato dagli uomini), infine degna della serie tv "Ai confini della realtà". Si rimpiange l'impianto tradizionale ma ricco di pathos dell'originale e la scelta di far parlare gli umani (cos'ha, allora, di tanto speciale l'astronauta?) perde per strada la riflessione sull'evoluzione influenzata dall'ambiente e il parallelo uomo/animale, mutato in un più banale oppressore/oppresso. Il dècor ci guadagna (al posto del villaggio, una colossale città nella giungla), il trucco di Rick Baker ha fatto progressi (strabilianti certe mimiche facciali), l'azione è copiosa (la battaglia campale finale è un "must", ma le piroette da kung-fu/fantasy sono da dimenticare), ma la vera ragione d'essere di un remake non necessario albergava nella peculiare poetica di Burton. Nonostante la messinscena immaginifica, le gag, i simbolismi, i dardi avvelenati nei confronti di vezzi e peccati dell'uomo contemporaneo (anche troppo urlati), Burton (come gli irriconoscibili attori scritturati) si nasconde dietro la maschera di un "gorilla", in questo caso il gonfio blockbuster hollywoodiano che, prima di tutto, vuole meravigliare con la matrice fantastica. È indubbio che ci riesca, ma da una rilettura autorale ci si aspettava qualcosa di più. Sotto quest'aspetto il film ricorda la svolta gigantista-anonima del Luc Besson de Il Quinto Elemento. Non resta che assaporare i tipici e pittoreschi personaggi burtoniani: su tutti un impagabile Tim Roth in versione Riccardo III e Lisa Marie (moglie del regista) che seduce in modo "scimmiesco" il vecchio e grasso marito. Particolare anche l'idea di affiancare al protagonista maschile una bionda avvenente ma poco credibile nell'humus selvaggio (una provocazione verso i cliché del genere?) e una scimmia (la Carter) che si fa strada verso il cuore con il carattere e l'intelligenza. Nel seducente "baraccone" generale l'occhio fa finta di non vedere le incongruenze (l'astronauta non si chiede come mai tutti parlano la sua lingua) e le risoluzioni sbrigative (il voltafaccia verso il proprio re e la conversione finale delle scimmie).