TRAMA
Nella provincia francese la seducente Lili abbandona il giovane Julien, aspirante cineasta, per andare a Parigi con Brice, regista già adulto ed affermato. Quattro anni dopo è ormai diventata un’attrice di successo; ma apprende che Julien sta girando il suo primo film, ovvero il racconto della loro storia d’amore finita male.
RECENSIONI
Prendete Cechov e mettetelo sotto tortura: ne uscirà fuori l’ultimo film di Claude Miller, un lancinante adattamento all’insegna di sé stesso. In tutta la prima parte il regista è impegnato a dimostrare quanto sia vasto il campo della sua conoscenza, quanto la sua opera si avvalga di un sottofondo culturale: per farlo calca la mano (pesante) sui vuoti stereotipi della provincia, sguazzando nella figura del ragazzo ribelle contro tutto e tutti, pretesto per (auto)citare gli attori francesi del tempo che fu (viene pronunciato anche Lino Ventura, che nell’81 lavorò nel suo GUARDATO A VISTA). In successione sfilano: una lolita troppo pacchiana (Ludivine Sagnier, sempre meglio, in splendida ostentazione del suo corpo), le due anime nere dell’industry (regista e signora, il cui ultimo film ha un titolo vanziniano: Lo spezzatino), il dottore che si scopa le pazienti (che novità), la paziente scopata dal dottore (zero assoluto), il nonno che non imbriglia i suoi attacchi di sonnolenza (l’unico veramente simpatico). Questo gabbiano è particolarmente chiacchierone: i burattini milleriani proprio non tengono a freno la lingua, dissertano sul più e/o il meno, si etichettano urlandosi contro i propri giudizi (la sottigliezza, questa sconosciuta). L’affermato regista Brice pare essere alter ego dell’autore –anche se egli ha dichiarato di “riconoscersi in Julien”; ma certo, e io sono la Regina d’Inghilterra- e non si astiene dallo sbrodolare Proust a metà pranzo per spogliare la ninfetta in fibrillazione (così come poi Julien regala a Lili Tenera è la notte di Fitzgerald: cultura libresca, per l’appunto). Oltre ad una convincente sterzata drammatica (il confronto madre/figlio, con tentato suicidio annesso), la fotografia placidamente intensa di Gerard de Battista è il vero e proprio fremito della prima frazione; a tratti fine a sé stesso, lo splendido paesaggio dell’isolotto dissolve comunque la barriera dell’occhio. Atto secondo: la virata conduce la scena a Parigi, dove l’autore affila i coltelli per la conclusione metafilmica (ancora!). Dopo la scelta (sbagliata...?) di Lili, l’attacco sociale al sistema non si prende la briga di imboccare vie traverse: cavalca la prateria del grossolano, mettendo in piedi la classica e disprezzabile festa vipparola. La violenta contrapposizione tra overdose di successo ed astinenza di umanità uccide il tempo per pensare, impossibile è formulare un giudizio ma antipatico farselo imporre; poco importa a Miller, più concentrato nel pennellare il melodramma omogeneizzato, al fine di sbattercelo in faccia (Lili, ormai famosa, confessa tra le lacrime di non aver mai smesso di pensare al suo “amore”). Potrebbe anche bastare, ma le marionette sono ormai pronte a girare il film sulla loro vita: un’intuizione realmente intrigante –l’unica?- che però non esce mai dalla carta. La somma degli addendi fornisce quindi la mummificata riflessione sul “cinema nel cinema” (citando il patrimonio nazionale: 8½ è di quaranta anni fa, e ho detto tutto), dove le umane figure gironzolano per un set di cartapesta senza lo straccio di un perché. Il film gongola, la tira per le lunghe, riunisce una vasta congrega attoriale sotto il tendone; vedere gli interpreti (spesso invertiti: il siparietto Marielle-Piccoli) che recitano per la seconda volta il “loro” vissuto può essere un giochino quasi piacevole, un sollazzo momentaneo, ma di certo non suscita alcuna emozione. Si ripropone in questa sede il masturbatorio dibattito: è possibile tradurre in immagini opere come Il gabbiano di Cechov? Qual è il confine tra teatro e cinema? Ma soprattutto: quanto ci interessa? Tanto quest’ultimo, compiaciuto Miller non pare essere né l’uno né l’altro.
Nel pasticcio metafilmico di Miller - in cui Il gabbiano viene disinvoltamente (e legittimamente) fatto a pezzi - accanto all'innocuo giochino autoreferenziale (pacchiano fino al gustoso lo scambio di battute in cui Brice sottolinea l'essenza finzionale della congrega, individuando nella sua interlocutrice il personaggio più interessante), emerge una riflessione sulla natura compromissoria del cinema, resa con un'efficacia degna di nota. Nel dramma cechoviano il giovane Konstantin incarna la letteratura, arte che può mantenersi immune da cedimenti etici, animata da un fervore e una passione che può disdegnare i patteggiamenti; di tutt'altra pasta, invece, sembra essere fatto il cinema: JulienKonstatin gira il suo corto con una semplice camera digitale, abbozza il montaggio al computer, lancia proclami di purezza contro l'industria e il box office che Brice impersonerebbe, ma qualche anno dopo è ingranaggio dello stesso perverso meccanismo, proclama la sua utopica castità filmica essendo già parte dell'apparato e, servendosene, utilizza nella propria opera prima persino i nomi e i corpi di Brice e della madre attrice. Il cinema, sembra suggerire Miller, al contrario della letteratura, è necessariamente impuro ed è forse per questo che se ne Il gabbiano Konstantin alla fine si uccide in nome dell'amore - di un'arte vissuta nella carne come sofferenza bruciante - Julien, il cineasta, in una citazione letterale del finale cechoviano, al massimo fa suicidare il personaggio che lo rappresenta nel film autobiografico che sta girando.