Thriller

L’UOMO SENZA SONNO

Titolo OriginaleThe Machinist
NazioneSpagna/U.S.A.
Anno Produzione2004
Genere
Durata102'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Trevor Reznik non dorme da un anno: quando nella fabbrica in cui lavora viene coinvolto nel grave incidente di un collega, comincia a sospettare che esista un complotto contro di lui.

RECENSIONI

Iniziamo con una minaccia: David Fincher la pagherà cara. Traendo FIGHT CLUB dal testo di Palahniuk ha fatto più male che bene al cinema di genere: se l’opera in sé risvegliava un discreto interesse, raccontando la dicotomia dell’animo nella persona sfuggente di Tyler Durden, ormai quel tipo di poetica si è universalizzata abbracciando la più sfacciata maniera. Dunque per confezionare un thriller (importanti influenze provengono anche da Shyamalan il quale, è stato appena dimostrato, riposa una scalinata sopra gli altri) occorrono nell’ordine: una sequenza di congiunzione inizio/fine, una figura misteriosa che si comporta in maniera anormale, il suo doppio (leggi: lo sdoppiamento), uno scenario degradante (esistenziale e/o lavorativo), segni e premonizioni, eventi insignificanti pronti infine a combaciare tra loro, un trauma nel passato, una rivelazione finale. Anderson si copre con la foglia di fico del placido schema e dirotta il narrato su una fotografia livida e grigiastra (con variazioni sul blu), escludendo gli incontri tra Trevor e la prostituta in cui, essendo forieri di autentico (ri)sentimento, è lecito un pieno cromatismo; egli bagna subito il thriller in acque plumbee (l’allucinato incipit) e prosegue immergendo il protagonista in un microcosmo inquietante (la fabbrica è un mostro, i macchinari le sue fauci) trovando il succo del film nel processo destabilizzante che lo travolge. Una sottile furbizia espositiva, come da lancio pubblicitario, dissemina leggibili citazioni dagli Autori del genere: tra claustrofobia domestica (Polanski) e mutamento corporale (Cronenberg), si riconosce un (presunto) complottismo fortemente hitchcockiano ed, in sottofondo, la vertigine automobilistica di STRADE PERDUTE (in questo caso: più imitata che raggiunta). Il regista aveva già dimostrato di preferire il piatto della casa alla nouvelle cuisine in SESSION 9 (operai ristrutturano un ex manicomio) ma qui smarrisce il condimento dell’insalata rischiando ripetutamente il pasto insapore; si riscatta in sporadiche sequenze che, costruite e montate al millimetro, imprimono cinicamente il fascino del brivido (l’incidente di Miller, il tunnel dell’orrore à la Hooper, il giochino dell’impiccato) e si suicida nel finale, pescando una chiusa direttamente dal formulario del genere – simile a DONNIE DARKO nella forma ma non nella sostanza. Il cadavere di Christian Bale è uno splendore cinematografico: spigoli che tagliano l’inquadratura, occhi scavati dall’intensa espressività, all’occasione addirittura umano. Dinanzi ad un interprete che mai avremmo sospettato di dover incensare, aggiriamo la condotta del cretino e ci affettiamo a cambiare idea.

Gia' con l'opera prima "Session 9" Brad Anderson aveva dimostrato di saper costruire un'atmosfera di pericolo imminente, attenta ai dettagli psicologici e alle geometrie degli spazi. Con "L'uomo senza sonno" conferma la predisposizione alle storie cupe, intrise di inquietudini sotterranee e di un male sottile ma pregnante. Sono tanti i modelli di riferimento, da "Memento", per il procedere ad incastri, ad "Allucinazione perversa", per il progressivo diminuire delle certezze, a "Fight Club", per la scissione a cui si abbandona il protagonista, oltre a un tocco di Cronenberg, per il mutare della carne, a Polanski, per la capacita' di insinuare il dubbio nel quotidiano e a David Lynch per l'incubo allucinante e senza via d'uscita che permea l'intera pellicola. Visti i molti illustri antecedenti, l'originalita' non e' il piatto forte del film e il rischio omologazione e' dietro l'angolo, ma Anderson riesce ugualmente a imprimere personalita' al racconto. Le premesse lasciano presagire un colpo di scena finale risolutivo e chiarificatore, cosa che arriva solo in parte, lasciando forse un po' di delusione in chi si attendeva una conclusione forte e ad effetto. Ma cio' che conta e' in questo caso il percorso. Tutto il film e' infatti condotto per tappe successive di degrado fisico e psicologico, che funzionano a livello narrativo e spiazzano lo spettatore in piu' di un'occasione. Ed e' curioso perche' il ritmo e' blando, la soluzione piu' volte annunciata, eppure alcuni momenti regalano imponderabili brividi sottocutanei: l'incidente al lavoro, il misterioso collega Ivan, il tunnel dell'orrore al Luna Park, i post-it sul frigorifero, l'apparente tranquillita' in cui sembrano stagnare gli eventi. Ma funzionano a dovere anche raccordi improbabili, come la fuga nei cunicoli della metropolitana interrotta bruscamente al sopraggiungere di un'ombra sghignazzante. A livello razionale non tutto quadra e nel procedere a ritroso alcuni sviluppi risultano gratuiti, ma mentre si e' immersi nei labirinti del racconto si provano curiosita' e disagio, un connubio raro e prezioso, certamente da non sottovalutare. Alla resa emotiva contribuisce non poco la fotografia acida di Xavi Jimenez e la scelta del cast, con le facce giuste al posto giusto: da Jennifer Jason Leigh, abbonata a ruoli borderline, all'inquietante sorriso di John Sharian. Ma il vero valore aggiunto e' dato da Christian Bale, che si cala nella parte con un realismo impressionante (pare sia appositamente dimagrito di ben 35 chili), quasi eccessivo, ma assolutamente efficace nel trasmettere la deriva di un uomo che, insieme al sonno, ha perso anche la capacita' di affrontare i propri fantasmi.

Accattivante opera sesta (Session 9, Happy Accident, Next Stop Wonderland etc.) questa di Brad Anderson anche se indiscutibilmente debitrice di tanto cinema delle metà oscure (Romero, Polanski, Fincher, Lynch e Hitchcock su tutti), ombre pellicolari che sembrano deambulare per tutto il film affannandosi ansimanti accanto all’incedere straziato dell’insonne protagonista. L’uomo senza sonno si configura come un prolungato delirio eraserheadiano (benché le atmosfere siano notevolmente più normalizzate) frutto di una mente che ha cancellato, o meglio semplicemente rimosso il proprio passato. Quello di Anderson è un film che demanda la sua ragion d’essere non tanto al pur solido costrutto narrativo, avvincente fin dalla prima astuta sequenza, ma proprio a quegli elementi formali saggiamente rapinati ad altro cinema che (ci) rammemorano altre subliminali inquietudini creando quell’intrigante gioco di déjà-vu immaginifico da cui, come Trevor Reznik, non riusciamo ad affrancarci. Le trame del tessuto diegetico sono come sottilissimi fili spideriani (l’ultimo Cronenberg costituisce decisamente un altro referente d’elezione, soprattutto nelle movenze sgraziatamente sonnambuliche di Reznik) che piano piano tendono verso un tentativo di scioglimento hitchcockiano finale non senza prima infittirsi e avvilupparsi misteriosamente e drammaticamente intorno alla mente e al corpo di questa lacerata, smagritissima figura condannata a vagare nella notte della (s)ragione. Il corpo senza sonno è una macchina costretta a produrre adrenalina (come pure la macchina cinema del resto, nella sua coazione all’invenzione di un genere, di un percorso tramico, di un improbabile coup de théâtre per nascondere e rivelare, allo stesso tempo, a sé stesso e allo spettatore altre atmosfere, altre escogitazioni visive, altro cinema) per sostenere i ritmi della veglia forzata, per non crollare sotto il peso della volontà di allucinazione, per non distrarsi dall’inesorabilità dei macchinari (o delle macchinazioni).
Il film, ostentatamente cerebrale, lambiccato come un interminabile incubo nel lurido lividore dei corpi che si assottigliano, si sfiniscono, si disgregano e si maciullano dentro fuligginose fabbriche o sotto la cupezza di cieli di metallo, sprofondato negli abissi di una psiche irrecuperabilmente devastata da ricordi luttuosi e (per questo) traumatici, si lacera addosso al protagonista ossessionandolo e squarciando le sue già labili sinapsi con fantasmi psicanalitici non esorcizzabili. Un film che muove i suoi personaggi psicologizzandone ogni (falso) movimento senza per questo deragliare lungo i binari dello psicologismo astratto e fine a se stesso; strade e identità perdute e mai definitivamente ritrovate attraverso un percorso di smarrimenti esistenziali (e cinefilici) pro(/re)gressivi.

Da qualche anno, nel cinema thriller s’è imposta la tendenza che vuole inquietanti bambini come protagonisti e tramiti con l’aldilà, nonché un capovolgimento globale di prospettiva come colpo di scena finale, sì che lo spettatore sia costretto a reinterpretare completamente il testo di cui ha fruito negli ultimi minuti o addirittura negli ultimi secondi del film.
Tali elementi sono sempre stati, ben s’intende, fra gli ingredienti di un genere che sull’aggressione ai tradizionali topoi narrativi, sull’ambiguità semantica e sulla frustrazione delle aspettative diegetiche gioca molte delle sue carte; alcuni successi planetari di codesta ricetta, che chiameremo per comodità “Amenàbar-Shyamalan”, hanno però indotto l’industria cinematografica a fossilizzarsi in una stucchevole ripetizione dei modelli, fino all’esito invero sorprendente dell’autoparodia involontaria (The village).
Felicemente immune da questa deriva, benché giochi con gli stessi elementi, è L’uomo senza sonno, prodotto e girato in Spagna dall’americano Brad Anderson: un giovane operaio (The machinist è il titolo originale) soffre di una drammatica insonnia, frutto di un’angoscia indefinita e causa di allucinazioni prevedibili (soprattutto se si ricordano Raising Caine e Fight Club) che lo inducono a immaginare la sua vita minacciata da incombenti presenze.
La vera forza del film è dunque non nelle acrobazie narrative ma nella resa stilistica – minimo sfoggio di ricercatezze, massimo effetto – e nel suo cuore drammatico: la partecipazione emotiva, sapientemente sollecitata, alle ansie del protagonista (uno stralunato e scheletrico Christian Bale, bravissimo); la causa di quel malessere schiacciante, la cui rivelazione comporterà non un rovesciamento di senso della fabula bensì il suo doloroso completamento; il temibile potere della mente umana capace di creare non solo l’abnorme e il perturbante per tormentare se stessa, ma pure il quotidiano e il sentimentale per tentare vanamente di uscire dall’incubo; il valore non solo etico ma psicologico dell’espiazione.
In definitiva, un film saldamente ancorato nel genere, ma con due interessanti peculiarità.
Innanzitutto la scelta dei modelli: non Hitchcock o Spielberg, ma l’inferno domestico del Repulsion di Polanski nonché il Cronenberg di Spider e la sua costruzione euclidea, in cui vediamo il protagonista attraversare fisicamente il proprio universo mentale, e ogni tassello va alla fine al suo posto a comporre un quadro pienamente leggibile, anche se non per questo meno penoso; poco pertinente ci sembra invece il richiamo, che pure è stato fatto, al Lynch di Mulholland Drive e alla struttura frattale di quel film, con più di un elemento destinato a rimanere sino alla fine indecidibile.
In secondo luogo, la volontà di toccare temi insolitamente alti, orchestrati efficacemente e con discrezione: ne siamo grati a chi ha saputo infondere, in 100 minuti d’intrattenimento, un sottile soffio dostojevskiano.