TRAMA
11 settembre 2001, ore 8.42: con 42 minuti di ritardo decolla da Newark diretto a San Francisco il volo United 93, un Boeing 757 con 7 membri di equipaggio e 37 passeggeri. Alle 9.28 cambierà improvvisamente rotta: destinazione Washington.
RECENSIONI
Impostato semidocumentaristicamente come l’assordante Bloody Sunday, United 93 segna il ritorno di Paul Greengrass alla docufiction dopo la parentesi thriller di The Bourne Supremacy. Decisamente più a suo agio con le temperature incandescenti della pseudocronaca in tempo reale che con le magagne mnemospionistiche di Jasoun Bourne, il cineasta inglese aggancia immediatamente l’atmosfera febbricitante delle ore che precedono i dirottamenti grazie a un suggestivo inizio che descrive con grande maestria visiva – fatta di particolari e dettagli alternati a sontuose riprese aeree di New York – le cerimonie preliminari dei terroristi (lettura intensiva del Corano, pratiche di depilazione ed equipaggiamento). Basandosi sulle telefonate dei passeggeri ai familiari, sui messaggi captati dai centri di controllo del traffico aereo e sulle testimonianze dei controllori di volo (molti dei quali interpreti di loro stessi nel film), Greengrass (ri)costruisce i 111 minuti che portano allo schianto del Boeing 757 nella campagna della Pennsylvanya vicino a Shanksville. In un crescendo di tensione e drammaticità, la pellicola descrive l’imbarco dei passeggeri, il decollo in ritardo di 40’, la presa di possesso dell’aereo da parte dei dirottatori – il cui progetto è stato danneggiato proprio dal ritardo – e la successiva organizzazione di una rivolta per riconquistare la cabina di pilotaggio. Ma se nella prima parte il cineasta inglese gioca piuttosto bene di sponda con i centri di controllo del traffico, dando respiro alla cronaca e osservando le reazioni a terra con uno sguardo liberamente descrittivo, nella seconda rinchiude l’azione dentro l’aereo e sacrifica la libertà stilistica sull’altare della tensione, lasciando che lo sguardo si depositi in forme convenzionalmente spettacolari. Detto più chiaramente, quando l’intensità cresce, United 93 si dimentica di avere un’impostazione semidocumentaristica e precipita nelle formule del film catastrofico: riprese frastornanti (rigorosamente macchina a mano), ampio uso di soggettive “furtive” e accompagnamento musicale tambureggiante. Questo il limite maggiore di un film che soffre anche un inevitabile(?) manicheismo di fondo, rappresentando i dirottatori come delle bestie feroci incapaci di parlare una lingua diversa dall’arabo misticheggiante e altrettanto incapaci di fronteggiare la rivolta dei passeggeri se non strillando e minacciando di far saltare l’aereo in aria con un’improbabile bomba artigianale. L’unico aspetto realmente interessante di un film altrimenti inspiegabile è forse il cortocircuito tra l’ipertrofia dei sistemi di controllo e la difficoltà di collegare i dati alla realtà: un eccesso di informazioni che, paradossalmente, conduce alla paralisi. Finale di efficacissima cupezza (insieme all’incipit la cosa migliore del film) e doppiaggio oltremodo pernicioso.