Drammatico, Recensione

LA DUCHESSA DI LANGEAIS

Titolo OriginaleNe touchez pas la hache
NazioneFrancia/Italia
Anno Produzione2007
Durata137'

TRAMA

Parigi, 1818. Antoinette, duchessa di Langeais, conosce Armand, marchese di Montrivau ad un ballo mondano. È subito amore, ma le convenienze sociali, l’etichetta e le rigide convenzioni nobiliari ne ostacolano la realizzazione.

RECENSIONI

La Duchessa di Langeais (traduzione moderatamente libera di Ne touchez pas la hache) scolpisce il tempo del rimorso. Cinematograficamente il flashback. Proiettata in un passato non più così recente (sono trascorsi cinque anni dallo sbocciare della passione), la nascita dell’amore tra Antoinette e Armand è rinserrata in una dimensione isolata dal presente, ma i cui segni dolorosi, le cicatrici interiori si fanno sentire in tutta la loro disperata intensità. Così la distanza cronologica, in una di quelle negazioni narrative tipiche del mélo, diventa paradossalmente prossimità sentimentale, intimità emotiva. Il film si apre con la visita di Armand (un Guillaume Depardieu “kaurismäkiano”) nella chiesa di un convento nell’isola di Maiorca (in realtà siamo nello splendido set naturale delle Tremiti). Qui lo scontroso generale ritrova l’amata Antoinette (Jeanne Balibar, un florilegio di fremiti e mancamenti), entrata nell’ordine delle carmelitane scalze e ostruitagli da un’inoltrepassabile grata di ferro. Sono le sbarre fissate dal tempo, quelle sbarre sono il tempo. Con la stessa plumbea durezza Rivette converte questa inesorabilità spaziale in anacronia filmica: il flashback, introdotto da una secca didascalia che rinvia a cinque anni prima, possiede la stessa immutabilità di quelle sbarre. È il tempo del rimorso, della penosa incapacità di scardinare precetti e regole sociali per trovare un linguaggio comune in cui far dialogare cuori e corpi. Il passato è il tempo dell’amore ideale e impossibile, il presente il tempo della morte e del rimpianto sublimato: “Ora è solo un poema”.

Rivette torna a rivisitare il testo balzachiano dopo La belle noiseuse, arrischiando un riavvicinamento a quel Balzac sempre più intento nell’esplorazione dei meccanismi psichici interpersonali che stanno alla base del suo studio socio-antropologico compiuto attraverso la letteratura e, specificamente, la forma-romanzo. L’autore di quella “Nouvelle Vague d’à côté”, adeguatamente riconsiderata, trasforma la dynamis romanzesca in energia statica confinandola in quadri mobili che rinunciando all’implacabile fissità della m.d.p. teatralizzano la scena esemplarizzando movenze e gestualità dei personaggi che la compongono (come in un Delacroix, laddove le frequenti didascalie della pellicola sembrano effettivamente cartigli di un dipinto), la cui dualità viene spesso ricomposta nell’unità dei totali, quasi a voler sancire il plesso armonioso della rappresentazione costituito dalla coppia di amanti. Il movimento scenico (e cinematografico) rifiuta dunque la classica scansione dei campi/controcampi affidandosi alla intermittente discontinuità dei sentimenti provati dai protagonisti, colta nell’interruzione dei piani-sequenza o nella disparità dei piani e dei raccordi. Lo spazio rappresentativo è quello di un boudoir sadiano nel quale viene spietatamente messa in scena l’analisi dei processi psicologici del sentimento amoroso, scomposto nei suoi vettori psichici più originari: l’amore d’oggetto e l’amore di sé. Al primo corrisponde l’implacabile, furibondo e divorante trasporto dell’ufficiale dell’armata napoleonica, divenuto Marchese di Montriveau in seguito a meriti e onori conquistati sul campo di battaglia, al secondo, che è in realtà un amore d’oggetto camuffato, l’attrazione esteriore che la nobildonna nutre per l’immagine di sé (Rivette rivela le sue doti di autore sopraffino nel delegare alle immagini speculari l’attenzione dello sguardo della duchessa di Langeais, costantemente sorpresa nell’osservazione di sé), il primo adombra quella sorta di stentata aspirazione di una nuova classe sociale (nuova aristocrazia ma anche borghesia avventurosa che tanta importanza avrà durante il Secondo Impero) che, scongiurato il pericolo imperialista, comincia a corteggiare agi e abitudini dell’alta aristocrazia, il secondo tende a legittimare l’immagine di narcisismo sociale propria della vecchia aristocrazia che continua a permanere e perdurare nonostante la fine dell’Ancien Régime e l’affacciarsi del fantasma della Restaurazione. Appare evidente che più di una banale scena di schermaglie amorose il film (e il romanzo balzachiano in primis) metaforizza a mo’ di sismografo le scosse di assestamento di un assetto sociale in continua trasformazione. Un moto tellurico che assume le sembianze di una vibrazione, di un’oscillazione di anime colte in un doppio movimento di avvicinamento e separazione, quello stesso meccanismo di fuga distanziante e riapprossimazione caro alla schizofrenia di un amore nevrotizzato dagli status sociali (e che Buñuel aveva descritto così bene in Quell’oscuro oggetto del desiderio, anche se lì si trattava più che altro di status anagrafico), di desiderio e di negazione, di appagamento nella privazione del godimento, di piacere di un piacere eternamente rimandato come un autentico atto mancato (non a caso Montriveau è claudicante). Fino all’ovvio sado-masochistico ribaltamento dei ruoli (il famoso oltrepassamento del limite posto dal monito ne touchez pas la hache, relativo alla decapitazione di Carlo I e alla conseguente destituzione della monarchia) nel momento in cui il noli me tangere viene totalmente rovesciato e sarà la duchessa di Langeais a rincorrere l’ombra dell’amato generale Montrivau che ha nel frattempo restituito punitivamente l’atteggiamento scostante della bella scontrosa, giungendo al tragico finale; ovvero quando l’aristocrazia compirà l’estremo disperato gesto prima di venir soppiantata da una nuova e più temibile classe sociale.