Drammatico, Recensione

DOPO IL MATRIMONIO (2006)

TRAMA

Jacob lavora in un asilo indiano; quando intravede la possibilità di un ingente finanziamento è costretto a recarsi a Copenaghen, dove incontra una figura del suo passato.

RECENSIONI

Se tappa le orecchie alle sirene dogmatiche - viene scavalcato il divieto del suono riprodotto - Susanne Bier dimostra un roccioso governo del dramma; non fuggendo totalmente lo sgambetto emotivo (gli incisi iniziale e conclusivo, che indugiano sui corpi dei bimbi, suonano inessenziali), fa della camera a mano l'uso migliore, l'unico oggi possibile, incollandola alle asperità degli attori, senza la scappatoia vigliacca del teorema illustrato (Manderlay). Quando entra nel merito After the Wedding è una tragedia dura e pura che odia il compromesso e affianca a catena devastanti scene madri, più o meno risolte, che nuotano in un mare di lacrime. Il momento rituale (dallo sposalizio al compleanno) è la finestra sulla baraonda di passioni forti che sbrana i protagonisti; questi, non deviando mai dal percorso obbligato (l'amore, le corna, il cancro), danno fuoco alle polveri attraverso cannonate interiori che talvolta rompono qualcosa (la firma del contratto e il lungo singhiozzo di Jørgen sono robuste iniezioni - a livello narrativo, scenico e attoriale - di costruzione drammatica). Calca la mano la regista, servendosi di facce d'alta tenuta (Rolf Lassgård è stupendamente tremendo, Mads Mikkelsen il volto nuovo del Nord) e della consueta penna di Anders Thomas Jensen, accostando il film più alla bollente sintesi di Open Hearts che alla deriva pacifistologica di  Non desiderare la donna d'altri. Si piange per davvero.

Il cinema di Susanne Bier mira all'illustrazione di parabole morali, che attenuano le pretese universalizzanti del nume danese Von Trier scaldando lo sguardo rivolto ai personaggi nel mentre rendono meno assolute e apocalittiche le proporzioni del dramma. L'ambiente preferito dalla regista è quello famigliare, il microcosmo in cui com'è noto tutti i conflitti, i bisogni e i ricatti emotivi possono trovare convegno. Rispetto al precedente Non Desiderare la Donna d'altri, il dilemma etico qui proposto conosce un'enunciazione meno drastica e più melodrammatica (come si evince confrontando le scene di “confessione” dei due film). Questa correzione di rotta ha nociuto alla severa umanità dell'autrice, condizionandone lo sguardo nella direzione d'un sovratono impresso a tutta la narrazione, che se conserva la precisione del disegno psicologico ed evita le sceneggiate di pessimo gusto propinateci da celebri registi nostrani quando sono in vena d'affrontare i Grandi Temi, viene tuttavia risolto nei modi corrivi della frequente lacrimazione (e gli abituali dettagli degli occhi sortiscono in tali casi lo sgradevole effetto di altrettanti climax all'interno d'un climax), dei ripetuti ictus drammatici, dell'accumulo di caratteri tale da saturare il dramma da camera che li ospita. Troppa carne al fuoco per l'opera di un'onesta professionista? Forse. Ma di certo, e ancora una volta, troppa esibizione di sentimento; chissà se, uscendo dalle trappole emotive dell'universo famigliare, Bier riuscirebbe a conservare fino in fondo la lucidità che le fa difetto nelle evoluzioni conclusive della fabula.