TRAMA
Bosnia, 1992. Una nuova linea ferroviaria, un ingegnere serbo, sua moglie (cantante lirica allergica alla polvere), il figlio (giovane calciatore costretto a brusche mutazioni di divisa), un’infermiera musulmana, altre pazze pazze pazze vite in bilico fra routine e guerra, sogno e realtà, desolazione e speranza.
RECENSIONI
Paesaggi decadenti e/o incantati, presenze (variamente bestiali) inquietanti e spassose a go-go, la follia del quotidiano confrontata al cieco e sordo orrore di una guerra vista da lontano (nelle sue escrescenze più grottesche e trafficate, locali e non) e sentita da vicino. Kusturica colloca i pezzi sulla scacchiera e riempie il suo plastico a grandezza (in)naturale di tutto quello che ci si può aspettare da lui: inno e pochade [l’amore che (ri)unisce le anime divise in due, il sesso coi pinguini che conforta i corpi moribondi], tragedia (di cronaca e no) e favola (gli orsi di Riccioli d’oro), metalinguaggio [Luka è il regista della ferrovia – accozzaglia di binari inutili(zzati) solcati da carrelli sempre “creativi” – , il narratore salvifico (coi soldati a far da vallette), il sognatore a oltranza che assaggia la disperazione solo per assaporare compiutamente la gioia (del) finale] e sberleffo (anti?)narcisistico [i dichiarati omaggi shakespeariani, a Romeo e Giulietta in primo luogo (il sonno che impedisce l’incontro fra padre e figlio)].
Tutto è bene quel che finisce bene? Non sempre: LA VITA è UN MIRACOLO è un film prevedibile dalla prima all’ultima immagine, appiattito dall’ostinata ostentazione di una gioia di vivere esplosiva (all’inizio) e meccanica (alla lunga), altalenante nelle invenzioni (i contrappunti animali sono irresistibili, la kermesse cocainomane, benché simpatica, è troppo affrettata e appiccicata per risultare pienamente efficace), sciatto nei dialoghi, claudicante nella messinscena (la sequenza della partita, che pure è una delle migliori del film, non trova mai il ritmo dionisiaco cui così chiaramente aspira). La parte centrale, con l’improbabile sequestro della giovane Sabaha, ha una sobrietà (pur nell’abituale florilegio di azioni sopra le righe e battute volonterosamente salaci) e un’amara dolcezza che fanno perdonare i laccati spazi onirici (il letto sulla Storia) e i limiti espressivi di gran parte del cast (soprattutto maschile), ma la conclusione da romance rovina irrimediabilmente la festa. Certo, a dispetto della durata XXL (più di due ore e trenta), non ci si annoia mai: ma dalla non-noia all’entusiasmo, il tragitto della litote può essere fin troppo lungo.
L’estimatore del regista di Sarajevo è messo in imbarazzo da un film come questo, in cui si colgono molti dei tratti fondamentali del suo cinema, che hanno contribuito a renderlo famoso e ammirato, ma come rapinati del loro DNA ed esibiti in una meccanica ripetitiva, talvolta divertente ma più spesso tediosa; l’impressione conclusiva è quella di aver assistito all’opera di un imitatore pedestre del suo stile.
Cercando di puntualizzare, osserviamo che il vitalismo caotico e il gusto dello sberleffo irriverente che ben si conoscono in Kusturica sono presenti qui nelle manifestazioni, anch’esse tipiche e particolarmente amate dal regista, del sesso e del giocoso surrealismo; tuttavia, l’organizzazione del materiale è discutibile sotto più di un aspetto.
Innanzitutto, il ritmo vorrebbe essere vorticoso ma è semplicemente sbiellato; infatti, le sequenze sono affette – anche quelle riuscite – da ipertrofia, e annaspano quasi sempre senza una precisa direzione, o meglio volendo imboccarle tutte insieme contemporaneamente. È qui, crediamo, la ragione principale di una riuscita tanto problematica: il regista pretenderebbe che partecipassimo emotivamente alle lungaggini amorose e ai sogni infranti dei due protagonisti, ma non si pèrita di coprirli di ridicolo – non di malinconico umorismo, ma proprio di ridicolo – per tutto il film (ma è possibile che il doppiaggio, non sappiamo se particolarmente perfido o accuratamente fedele nell’assegnare toni ai bordi dell’idiotismo un po’ a tutti i personaggi, abbia giocato la sua parte). Ed è pretesa eccessiva, anche per i meno ideologici fra gli spettatori.
È soprattutto per questo che le trovate narrative appaiono non solo gratuite – il che può non essere un limite, in una poetica che fa della stravaganza un suo punto chiave – ma soprattutto fantasiose ed esilaranti come i rintocchi di un orologio a cucù: poste l’una accanto all’altra in una sommatoria puramente orizzontale, la prima diverte, la seconda fa sorridere, alla terza inarchi un sopracciglio, la quarta l’avevi immancabilmente prevista, alla quinta sbuffi per il fastidio. La sterile ripetizione di una maniera che conosce ormai più di una smagliatura; perché anche il manierismo, al cinema, è una questione di ritmo, e la strategia dell’accumulo, dell’ammasso, può essere d’epidermico effetto ma viene presto a noia. Così, ciò che soprattutto si avverte nelle oltre due ore del film è lo sforzo di scrittura nel voler riprodurre il disordine grottesco della vita.
Ma c’è un altro aspetto che non è possibile tacere. La guerra, certo, è banditismo organizzato, allora come oggi, che si tratti di merci da requisire, di petrolio da controllare, di un oleodotto da costruire; Kusturica ce lo racconta con sarcasmo. Eppure, siccome la guerra entra con tutta la sua ottusa prepotenza nel film, non possiamo esimerci dal notare come poco si intuisca, nonostante la presenza di schermi televisivi e proclami politici, delle dinamiche culturali e comunicative attraverso cui la sollecitazione dell’odio etnico e religioso ha agito sulla gente comune – l’ordinary people che siamo tutti noi – e insomma della manipolazione ideologica che quel conflitto ha partorito da un ventre malefico.
Conosciamo l’obiezione e i suoi pregi tentatori: non di un discorso sull’ideologia della guerra si tratta, ma del panorama su un universo che dalla guerra viene sconvolto. Eppure, anche in questa prospettiva sentiamo che qualcosa manca. Perché in una guerra, e in una guerra civile a maggior ragione, viene attivato su vasta e vastissima scala il meccanismo infernale dell’odio pregiudiziale, del nemico simbolico, del capro espiatorio, della repulsione xenofoba, della missione purificatrice e salvifica.
Crediamo che anche questa machinatio entri di diritto – di tristissimo diritto – in quel panorama; riteniamo perciò che parlare di quella – o di questa – guerra mostrando serbi croati e bosniaci che diventano nemici come per caso dalla sera alla mattina e si sparano addosso quasi per sbaglio, solo perché si trovano un fucile tra le mani e lo usano a casaccio, e pretermettendo deliberatamente di affrontare quella dinamica fatale (a toccare la quale non basta certo la sequenza, peraltro riuscita, della partita di calcio, allusiva di una precisa circostanza storica), sia espressione forse di un pacifismo generoso e distratto (troppo generoso e troppo distratto, con riguardo alle responsabilità serbo-croate, sì che non si capisce neppure chi fu l’aggressore e chi l’aggredito: come mostrare il bravo americano che fa affari a Bagdad e viene cecchinato dal protervo iracheno, o il bravo italiano che porta la civiltà fascista in Iugoslavia e viene infoibato dal fanatico titino), ma equivalga, anche per il talento di un Kusturica, all’atto di diserzione da un’umanità dilaniata e in attesa di riscatto.
Dopo Underground (1995), Emir Kusturica torna al tema della guerra nell’ex-Jugoslavia con La vita è un miracolo.
L’ultimo film del regista di Sarajevo è uscito nelle sale in un clima assai diverso dal capolavoro visionario firmato dieci anni fa. Seppure attualmente la situazione non sia completamente pacificata (vedi il Kosovo), il conflitto ai tempi di Underground era ancora in corso, pochi giorni prima che vincesse la Palma d’oro a Cannes c’era stata la strage di Tuzla (26 maggio) in Bosnia, dove una granata serbo-bosniaca uccise più di settanta giovani, che si trovavano nella piazza centrale della città. In un clima surriscaldato, accolto positivamente dalla critica cinematografica, Underground subì da parte di diversi opinionisti di quotidiani francesi, italiani e bosniaci (il filosofo Finkielkraut e il giornalista Bettiza per dirne due che non avevano nemmeno visto il film) attacchi e forzate letture ideologiche (fu tacciato come propagandistico e filo serbo), che spesso rischiarono di prevalere sul valore del film.
Problema che non ha corso La vita è un miracolo, quasi passato in sordina, che ha però collezionato giudizi di comodo, da una pubblicistica (anche specializzata) che forse non considera più "a la page" Kusturica, e analisi assolutamente superficiali rispetto al contesto trattato, le guerre jugoslave. Prima di parlare del film vorrei fare un inciso su tale argomento. Le guerre jugoslave (1991-1999) non sono state conflitti tribali, come purtroppo ancora si pensa, ma una guerra complessa, assolutamente moderna (il nazionalismo è uno dei tratti chiave) e con elementi post-moderni (gli interessi globali delle potenze occidentali sui Balcani; l’articolata strategia di informazione). La guerra fu preceduta da un lungo periodo di incubazione, pilotata da interessi economici-politici, e possiamo affermare che fu quasi preparata da media, politici e intellettuali che condizionarono le masse a cavallo tra anni Ottanta e Novanta.
In La vita è un miracolo ci troviamo in Bosnia nel 1992, poco prima che anche qui scoppi la guerra, altri focolai sono esplosi in Slovenia e, in modo molto più drammatico, in Croazia. Luka, ingegnere serbo, uomo ottimista e mite, e sua moglie Jadranka, soprano e un po’ isterica, si sono traferiti da Belgrado, insieme al figlio Milos, giovane calciatore, in un villaggio isolato tra verdi boschi con l'intento di trasformarlo in un luogo turistico. Abitano in una colorata e piccola stazione, in un paesino circondato da una ferrovia in via di completamento, che sembra un microcosmo a parte. Ma la triste realtà non è lontana. Luka non dà retta alle voci dello scoppio di un conflitto imminente, la guerra civile è però alle porte e invaderà presto la vita del villaggio. Quando suo figlio Milos, chiamato a prendere servizio nell’esercito, è fatto prigioniero, i militari serbo-bosniaci gli affidano in custodia un ostaggio musulmano: è Sabaha, una bella ragazza che fa l’infermiera in città. Luka finirà per innamorarsene.
Nella prima parte del film Kusturica si esibisce in una maniera di se stesso, affascinante ma ripetitiva, in cui compaiono tutti gli elementi classici della poetica del regista bosniaco: caos, balli sfrenati, sbronze, personaggi bizzarri, musica tzigana e tanti animali (orsi, oche, asini, cani e gatti), l’unione indissolubile tra vita e morte, il confine labile tra realtà e sogno. E’ sicuramente più interessante lo sviluppo successivo del film.
Ad un certo punto la relativa quiete del villaggio viene rotta dallo scoppio della guerra in Bosnia-Erzegovina. Kusturica decide di affrontare meno il lato politico e concentrarsi sulle persone, sull'amara ironia della vita. Non spiega né indaga le cause del conflitto, ma il contesto non è puro sfondo, è assolutamente fondamentale nel film. I due grandi gruppi etnici che convivevano nella Bosnia orientale, serbi e musulmani, si ritrovano su sponde opposte a fronteggiarsi.
Il caos coinvolge anche la famiglia di Luka: la moglie fugge con un musicista ungherese, il figlio Milos, che in una delle prime sequenze abbiamo visto impegnato in una agguerrita partita di calcio, sfociata in un profetico scontro etnico (chiaro riferimento all’incontro tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa del 13 maggio 1990 finito in guerriglia), viene chiamato al fronte. Luka rimane solo e gli verrà affidato Sabaha, l’ostaggio da scambiare per riottenere il figlio.
Sotto le bombe nascerà l’amore tra "diversi", Luka e Sabaha; durante la guerra, fratricida, che si frappone tra loro, l’unica fuga possibile è nel sogno e appunto nell’amore. Il racconto cinematografico è liberamente ispirato ad una storia vera, raccontata al regista da un serbo rifugiato a Tolosa.
Nel corso del film si alternano farsa e tragedia. Il nostro sorriso, non è mai liberatorio, è smorzato come davanti alla comicità di Buster Keaton. La vita è un miracolo attinge a piene mani dal registro del grottesco rappresentando la tragicomicità della vita in un racconto sopra le righe, condito da forte humour nero.
Sogno e suicidio, archetipi della letteratura serba, ricorrono spesso nel film che mescola in alcuni momenti topici realistico e fantastico. L’asina suicida, che piange per amore e attende sulle rotaie del treno il momento fatale, salverà alla fine Luka dalla morte.
Lo stile di Kusturica, ormai diventato "classico", si snoda tra le influenze dei suoi maestri: il vitalismo e il caos surreale di Fellini, le distanze invisibili tra sogno e realtà proprie di Vigo e i voli fantastici impressi da Chagal (come quello finale del letto che lievita in cielo). Estetizzante nelle inquadrature di una natura rigogliosa e nella composizione del quadro visivo, come quando le spalle di Luka affacciato alla finestra paiono le gobbe della collina o nei fotogrammi in cui la dissolvenza a nero viene interrotta dal volto di Luka che esce dal tunnel della ferrovia.
Interpreta splendidamente Luka, Slavko Štimac, uno degli attori più cari a Kusturica: è stato Ivan, il fratello di Marko in Underground e l’adolescente Dino in Ti ricordi di Dolly Bell?.
Un personaggio, apparentemente secondario, il presidente del Comune può essere identificato come il vettore del pensiero di Kusturica all’interno film. Profondamente jugoslavo e legato a Sarajevo, metafora della multietnicità, morirà presto, ucciso dai cecchini; rappresenta la visione personale di Kusturica: "Quando è sparita la Jugoslava io sono diventato invisibile", disse con disperazione d’apolide, dopo le polemiche su Underground. "Sono vissuto – racconta Emir - in un paese dove i miei film preferiti erano croati e i miei libri preferiti erano serbi". I suoi primi lavori sono nati nella Sarajevo multietnica, quella stessa città che lo ha ripudiato quando ha deciso di stare a Belgrado e a Parigi durante la guerra. La sua posizione, sicuramente controversa (non sta a noi valutarne la buona fede), si è rivelata subito scomoda in una ex-Jugoslavia accecata dagli odi etnici.
Se il simbolo della manipolazione mediatica della storia e della realtà in Underground era il cinema, strumento di propaganda dei totalitarismi del Novecento, qui viene messa all’indice la televisione (quella che Luka scaraventa dalla finestra, informazione sia occidentale sia slava) che ormai da diversi decenni ha preso il posto della settima arte in queste "faccende". E così è stato per le guerre jugoslave: le televisioni balcaniche sono state esempio di vera manipolazione storica, mentre il cinema sulla recente guerra, seppur non abbia profondamente indagato sulle cause del conflitto (imprigionato in una visione, a metà, tra mito e realtà), si è rivelato di alto livello artistico, pacifista e non smaccatamente di una o dell’altra parte; ovviamente, gli elementi ideologici sono presenti nelle varie opere.
Kusturica non ha mai girato un film storico e mai lo farà, pochi sono i fatti reali narrati, ma i rapporti tra cinema e storia, mito e realtà, anche in termini metacinematografici, nella riflessione sulle modalità di messa in scena della Storia, sono tra i più intricati e interessanti della filmografia del regista.
La vita è un miracolo, non è certo il capolavoro di Kusturica, un film forse di transizione (perché è logico aspettarsi di più da un autore come lui), ma in due ore e mezza la noia non si vede mai.
Mauro Ravarino