TRAMA
Polonia. Daniel è un giovane che lascia l’istituto di detenzione e si finge prete in una piccola città, segnata da una terribile tragedia.
RECENSIONI
NOI PECCATORI
Prima di tutto, a schermo nero, c’è il rumore di una segheria. Poi l’immagine dei detenuti che svolgono meccanicamente il loro lavoro: d’altronde Cristo era un falegname e, come insegna Il figlio dei Dardenne, la falegnameria è il campo di battaglia con la propria colpa. Qui Daniel nel corso della detenzione è diventato un profondo credente e vuole farsi prete, ma per i suoi reati non potrà entrare in seminario: l’istituzione opera una riduzione della realtà, una semplificazione raffigurata nella facile psicologia carceraria fatta di cartelli (dolore, rabbia, amore, famiglia), interpretazioni sciocche, letture astratte della vita che vengono smentite dalla carne, dal corpo. «Ci sono altri modi per fare del bene», dice il prete del carcere, ma Daniel non è d’accordo, vuole essere come lui. E così si finge parroco in un piccolo centro, si maschera da altro da sé, indossa l'abito talare e pirandellianamente ne assume il ruolo, perché non c’è distinzione tra essere e apparire: l’abito fa il monaco. Daniel “diventa” Padre Tomasz e inizia il lavoro sotto copertura: prima ripete parole dalle omelie ascoltate, poi le rielabora e le fa sue, mostra un talento peculiare per il ruolo e si rivela prete eretico, fuori dalle convenzioni, quasi “panteista” (Dio non è in chiesa, ma fuori). È un novello Sister Act riscritto in dramma: perché un lutto ha segnato la comunità, un terribile incidente con un colpevole che non si vuole perdonare, e Daniel/Tomasz capisce che bisogna passare dalla riconciliazione per trovare il dolce domani.
Il regista Jan Komasa continua con Corpus Christi la sua radiografia sulla Polonia oggi, che avviene per interposto racconto, per interposti personaggi che sono sempre giovani e incarnano il contemporaneo: lo rifarà nel successivo The Hater, con un ragazzo negativo di questo, e lo aveva già fatto Malgorzata Szumowska in Un’altra vita - Mug, Orso d'argento alla Berlinale 2018, in cui un trapianto di volto faceva esplodere le contraddizioni della Polonia cattolica in modo tanto terribile quanto esilarante. L’ipocrita cattolicità di Stato è una chiave di volta anche per Corpus Christi, ma non la sola: basti rilevare che il finto prete fa meglio del parroco ufficiale, un alcolizzato che divide la società invece di unirla e pratica la discriminazione al posto del perdono. Ma il film è anche la storia di una fissazione, un’ossessione: il giovane vuole essere prete e gradualmente lo diviene, comincia a predicare davvero provando a edificare il bene della comunità. Il suo sguardo è sempre doppio, rivolto all’esterno ma anche verso l’interno, nel proprio intimo: cerca un dio per trovare se stesso. Dovrà combattere contro le dipendenze, come alcool e cocaina, racchiuse nella prima sequenza psichedelica in discoteca: per farlo sarà un prete pop, che lancia l’acquasanta a piene mani, in un gesto che fa rima col ballo strafatto, è la sua inversione mentale, il tentativo di ribaltare la situazione.
Komasa disegna il suo protagonista non solo col racconto, come se un film fosse un romanzo, ma attraverso la costruzione dell’inquadratura: all'inizio il volto dolente di Bartosz Bielena (magnifico, come tutti i visi del suo cinema) viene scolpito al centro del quadro, segnalando visivamente la difficoltà di uscire dalla sua condizione, di liberarsi per diventare altro, oppure viene inquadrato di sbieco mentre fuma nervosamente, coniugando così il sacerdozio al junkie, il ruolo sacrale al ragazzo perduto. Già l'opposizione binaria tra riformatorio e chiesa era declinata sul piano ottico: l’ambiente fumoso e oscuro della segheria contro lo spazio “santo” e incensato della chiesa, con Daniel al centro dell'inquadratura/pulpito che arringa i fedeli. È così che egli sbriciola lo stereotipo ecclesiastico: si scontra con l’industriale del luogo, “punito” dalla predica sull’avarizia, mette in dubbio il celibato nella storia d’amore con Marta, impossibile e dunque ancora più struggente. Alla messa d'addio, infine, si spoglia in modo francescano: si strappa la maschera, espone il corpo tatuato, torna Daniel e non più padre Tomasz, ma non aggiunge nulla, se ne va senza parlare perché “la preghiera è anche silenzio”.
È una storia semplice, quella di Corpus Christi: tutto sommato c’è un meccanismo elementare alla base. Un ragazzo difficile che tenta di ritrovarsi in altra veste. I preti finti che sono migliori di quelli veri. Il passato che porta il conto. La sua natura che viene a riprenderselo. Dice il regista: «Non c’è possibilità di essere completamente liberati dal male. La domanda allora diventa un’altra: se vale comunque la pena provarci o sarebbe meglio lasciare stare». Ecco, è il racconto di un tentativo: il suo fallimento viene certificato dalla violentissima sequenza finale, che ci lascia il volto insanguinato di Daniel, martire e carnefice nel corpo, non certo nell’anima. L'opportunità di provarci la attesta l’affresco di un personaggio memorabile, un corpo che vuole essere di cristo, ma alla fine resta corpo: siamo tutti, sempre, peccatori.