Thriller

THE VILLAGE

TRAMA

Alla fine del XIX secolo gli abitanti di un piccolo villaggio vivono isolati sulle colline, nel terrore delle creature innominabili che vivono nel bosco adiacente. Le creature hanno sempre convissuto pacificamente con gli abitanti del villaggio a patto che loro non entrassero nel bosco ma un giorno iniziano a dare segni di ostilità.

RECENSIONI

Valicare il confine del visibile

La prerogativa del cinema di Shyamalan sembra essere quella di instillare l’inquietudine attraverso l’esibizione di segni di presenze estranee al quotidiano, per lo più oggetti poco o mai visibili che spesso si configurano come un grande nulla, una terrificante assenza in grado di sconvolgere il corso dell’esistenza della comunità di persone su cui si abbattono. The village non fa eccezione, esplorando il territorio di una comunità isolata per la quale a produrre terrore e paranoia è la stessa idea dell’esistenza di qualcosa d’altro all’infuori della comunità stessa. Il film esibisce proprio l’incombere di questo “fuori” esplorando il territorio di confine che separa la porzione di spazio comunemente designata come realtà da quella sorta di enorme buio psichico dentro il quale si nasconde l’annientamento dell’esistenza, quella materia avversa alla vita comunemente designata come Il male. L’immagine chiave del film è proprio quella della sottilissima incarnazione fisica di un confine (i pali di legno e le torce) che, non presentando alcun tipo di recinzione, amplifica all’infinito la possibilità di infiltrazione del male, evidenziando la sua natura prevalentemente mentale e funzionando proprio da strumento paralizzante per la mente prima ancora che per il corpo: il pensiero del male è l’arma in grado di repellere l’ingresso nel bosco e allo stesso tempo di annientare l’esistenza di ciò che è contenuto al di fuori del confine. Non a caso la salvezza del villaggio è affidata agli occhi ciechi di Ivy, al suo presenziare in quel “di fuori” ma continuando a preservarne la non-esistenza grazie alla non-visione. La componente cromatica del male (il rosso) rappresenta un punto cardine della sua struttura, affida il suo potere ad una caratteristica sensitiva in grado di compiere una violenza psichica sugli abitanti del villaggio, di seminare un terrore al quale si può rivelare immune la sola Ivy, l’unica persona in grado di esperire il territorio esteriore senza realmente varcare il confine visivo che protegge dal male gli altri abitanti. Shyamalan concepisce il set disseminandolo di segni che vanno a costituire un potentissimo confine visivo e mentale intorno ai suoi protagonisti, evidenzia l’essenza del set come territorio alieno dal reale e dalle sue leggi, uno spazio la cui funzione primaria è quella di estromettere i suoi abitanti dalla realtà per consegnarli al territorio di una finzione suprema in grado di fare le veci del mondo. Shyamalan affida ad Ivy la facoltà di spingersi fino al confine del set e di scavalcarlo, di esplorare lo spazio che contiene il film stesso  come succede al Jim Carrey di The Truman show, ma privando il suo personaggio della possibilità di trascinare con sé all’interno del set qualsiasi traccia della sua esperienza aliena e preservando la solidità della superficie che separa la comunità dall’incubo del reale, dal male insito nel territorio della non-fiction.

Quaccherismo asterixiano

Signs evidenti che svuotano l’allegorica matrice fantastica: ormai più quacchero che umanista, Shyamalan affronta in modo innocuo la favola nera, ammantandola di Utopie fino ad evocare l’ingenuità di certi episodi della prima serie di Star Trek. Non c’è paura perché non c’è pericolo, e non c’è pericolo perché manca il mistero: tutto è Ad occhi aperti, le rivelazioni inattese assomigliano sempre più ad un vezzo (come il cameo che il regista si concede), soprattutto nel momento in cui minano il senso delle tematiche fin lì disseminate (affrontare le proprie paure; la violazione del proibito come peccato e coraggio; la fuga dal dolore che non vale il prezzo dell’innocenza; l’amore che vince la morte). Il soggetto è curioso (se solo avesse perseguito segnali esoterici e ritualistici, che racconto gotico sarebbe stato!), ma le carenze drammaturgiche lo vestono in modo sfatto: per la prima volta corale, Shyamalan perde sintesi e concentrazione, alterna il bozzetto caricaturale alla magniloquenza e rende imbarazzante l’appello alla tensione (anche etica) di fronte a personaggi che fondono René Goscinny e William Shakespeare. Amore e violenza (la scena dell’accoltellamento, nella sua soggettiva meravigliata, è potente) regalano le pagine più convincenti, ma crescono i nonsense in una sgarrata giustapposizione degli eventi, dove le cieche si comportano come se vedessero, allungano le mani verso suadenti (quanto pletorici) lirismi e sono terrorizzate senza motivo (lei nel bosco, prima di incontrare chi non dovrebbe esserci). I folli, deformità in un irreale quadro di anime candide, scuoiano nell’ignoranza generale (?) e sono gli unici depositari della violenza: la ferocia è appannaggio delle sole menti deboli? Tale colpo di scena tradisce il concetto dell’amore che crea dolore e poi violenza. La filosofia rustica e asservita alla sorpresa di Shyamalan trova l’archetipo ideale nell’impensabile verginità della guardia forestale nel finale.