Drammatico, Recensione

UN VIAGGIO CHIAMATO AMORE

TRAMA

Tra il 1916 e il 1918 la scrittrice Sibilla Aleramo e il poeta Dino Campana vivono la loro appassionata storia d’amore.

RECENSIONI

Il cinema italiano non decolla e non decollerà se si affiderà ancora a operazioni marchianamente errate come questo UN VIAGGIO CHIAMATO AMORE che, intendendo celebrare, commemorare, romanzare, volgarizzare (in tutti i sensi) la storia d'amore tra la Aleramo e Campana, non trova di meglio che affidarsi a toni melodrammatici da romanzone televisivo e a un piattume registico che è la costante di tanto cinema nostrano. Sbaglia molto Placido, che evidentemente mira alto, regista, in altre occasioni ben più efficace ed incisivo, che non trattiene nella rappresentazione della storia tormentata dei due letterati, una tendenza al lamentoso e allo sdilinquito, rimanendo succube della flagellante voce off (ci si ispira liberamente all'epistolario dei due amanti), ricostruendo passati con flashback di vaga patina pubblicitaria e scavando nel nulla per evidenziare motivazioni alla base dei modi d'agire dei protagonisti. E' evidente che, più che la statura artistica dei personaggi, al regista interessi il loro lato umano ed è perciò chiara la scelta di Placido di ricostruzione della storia dell'amour fou tra i due nel quadro controverso dell'epoca, una ricostruzione affetta, però, da semplicismo e superficialità di tratto: nulla viene approfondito, tutto resta appena abbozzato e non basta la cura del dettaglio tecnico, un montaggio e una fotografia all'altezza, a eliminare la sensazione di polveroso e pietoso standard "italiota". Degli attori sarebbe salutare non parlare: la Morante non fa altro che frignare, costretta nelle maglie di un carattere disegnato malamente, Accorsi, che manifesta tutti i suoi limiti interpretativi, è a dir poco pietoso nei suoi tentativi di rendere la follia del poeta Campana (il ragazzo non conosce i mezzi toni e le sfumature, crede che per recitare con espressione appropriata una poesia basti sussurrarla, che per fare il pazzo sia sufficiente urlare e lanciare occhiate a destra e a manca. Il premio per la sua interpretazione, assolutamente ridicolo, è il pedaggio che la giuria deve annualmente - e poi ci si lamenta dello sciovinismo cannense - pagare all'Italia organizzatrice della Mostra). Di roba così in tv se ne vede parecchia: perché pagare 7 euro e passa per vederne altra?

La travolgente storia d'amore tra il poeta Dino Campana e la narratrice e poetessa Sibilla Aleramo diventa, nella trasposizione cinematografica di Michele Placido, un sontuoso sceneggiato televisivo. E' proprio la confezione a raggelare il film: la fotografia patinata di Luca Bigazzi, la musica magniloquente di Carlo Crivelli, la cura registica per l'insieme ma non per i dettagli (vedi le solite comparse poco credibili). I due protagonisti aderiscono con convinzione al progetto, ma se Laura Morante trasmette con intensita' la passionalita' e la forte personalita' del suo personaggio, Stefano Accorsi appare subito fuori parte. Si agita come un ossesso per tutto il film, ma tradisce con gli occhi un controllo che frena la sincerita' di ogni slancio. Al riguardo risulta davvero un mistero il riconoscimento ottenuto al festival di Venezia per la sua interpretazione frutto, probabilmente, di equilibri internazionali da rispettare nell'attribuzione dei premi. Anche la sceneggiatura non aiuta ad esplicitare due personaggi cosi' complessi, riducendo la loro passione ad un'esteriorita' di gesti e di azioni priva di irrazionalita' e, conseguentemente, di trasporto emotivo. Per cui le continue liti e riappacificazioni, le crisi di pazzia, i calci, le botte, finiscono con il diventare una noiosa routine. Non si sente il fuoco, la violenza, l'ossessione, la malattia, il disagio, ci si limita a contemplarli. Cosi' come i versi del poeta che, letti fuori campo o recitati dai protagonisti, arrivano sempre in modo prevedibile (come preannunciati da un "Ciak! Frase profonda!") scivolando, insieme al film, nell'indifferenza.