Drammatico, Recensione

VIAGGIO ALLA MECCA

Titolo OriginaleLe Grand Voyage
NazioneFrancia/Marocco
Anno Produzione2004
Durata108'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Mustapha, anziano marocchino emigrato in Francia, si reca con il figlio Réda in pellegrinaggio alla Mecca.

RECENSIONI

Road movie a sfondo religioso spalmato sul confronto generazionale padre/figlio: è questa la formula che racchiude il film di Ismaël Ferroukhi, e che come tutte le formule ne costituisce la gabbia limitativa. Servendosi di un prologo breve ed incisivo, che non si cura di presentare pleonasticamente gli estremi dei protagonisti, il film si infila subito alla guida di una vettura sgangherata per un percorso a tappe che scivola disinvoltamente da Milano ad Istanbul. Un piccolo giro del mondo, dunque, in cui si incrociano figure sfuggenti e borderline, assurde o semplicemente nonsense (l’anziana autostoppista) sotto il cielo plumbeo di un dolore soffuso. Padre e figlio non si capiscono, mantengono alta la tensione del conflitto per l’intera traversata, infine trovano il calore di un contatto quando sarà troppo tardi. Questo oggetto che si aggira per l’Europa - il primo film girato alla Mecca, spiega il regista - , armato di innegabili ottime intenzioni, non risulta tuttavia comunicativo: una gioventù ingenua preferisce comporre sms che intonare una preghiera, i genitori fanno della religione il guscio per giustificare l’incapacità di comunicare alla prole, tutto questo applicato alla rigidità del prospetto musulmano contro lo scialacquo morale dei nostri tempi. Sarà pure un’analisi veritiera, per carità, ma difficilmente rima con cinema, apparendo Viaggio alla Mecca quanto mai altalenante, a tratti paurosamente fatuo (i volti incrociati sulla strada sono macchiette monodimensionali, nessuno escluso), servito da interpreti efficaci ma fin troppo serioso nel toccare stazioni ovvie (Réda viola sistematicamente ogni regola del buon musulmano: denaro, alcool, sesso…) esponendo con tono rivelatorio disquisizioni da siamotuttid’accordo (occorre volersi bene in famiglia, signora mia, in questi tempi di crisi di valori). Il dolore maggiore inflittoci dal film, a ben vedere, è proprio la sua ordinarietà: il regista non si affanna abbastanza sulla costruzione dell’immagine, ritagliando appena un paio di squarci significativi (il piano onirico di Réda che affoga nella sabbia, il finale cimiteriale) ma preferendo continuare a spiegare la lezione alla lavagna oltre il suono della campanella. Ha vinto il Leone del Futuro per la miglior opera prima a Venezia 2004 questo film; automatici i riconoscimenti per il suo impegno e attualità, domani saranno scontati altri premi per Ferroukhi, molto meno la nostra attenzione.