TRAMA
La nave Vergeur attracca nel porto di Brest, tra il suo equipaggio spicca la figura del marinaio Querelle che, come una sorta di angelo del male, reca scompiglio nelle vite di tutte quelle persone che si trovano ad intrattenere rapporti con lui.
RECENSIONI
Anche Querelle, come tutte le opere fassbinderiane di derivazione letteraria, risulta un’operazione di felice e fecondo stravolgimento. Fassbinder non può fare assolutamente a meno di interiorizzare la pagina letteraria per farne cosa personale, propria. Questa condizione rappresenta un principio, o più attendibilmente, il principio irrinunciabile del suo fare cinema dettato, peraltro, sempre da febbrili urgenze espressive: il testo genetiano di partenza si trasforma inevitabilmente in lettura fassbinderiana. Innanzitutto ciò che avverte Fassbinder è la densità metaforica del Querelle de Brest genetiano, ovvero una spirale di violenta rarefazione segnica che rinuncia al costrutto narrativo per accedere al territorio del simbolico. Querelle non è una persona, è un simbolo. E così tutto ciò che sta intorno a questa eminente figura, compreso il perimetro spazio-temporale dei suoi movimenti e delle sue azioni, appartenenti al dominio del simbolico. La prima emergenza di Querelle è attribuire un valore trasfigurato e trasfigurante allo spazio, lavorare dunque principalmente sul doppio coté scenografico-fotografico per rendere al massimo un’atmosfera di astrazione simbolica che fosse però in grado di catturare l’apparato percettivo dello spettatore di rapire le sue sensazioni debordandone la capacità percettiva. Il film riesce in maniera stupefacente a vivere in uno stato di trans emotivo-concettuale, una sorta di estasi in cui l’ambientazione non corrisponde a nessun luogo e nessun tempo particolari che non siano lo spazio e il tempo propri del film in cui l’ennesima vicenda di amore e di morte (che per Fassbinder costituiscono indissolubile endiadi) viene rappresentata, o meglio vissuta (come rappresentazione). Querelle si annuncia dall’inizio alla fine come eterno (non)luogo della disseminazione significante che metaforizza l’ancipite rapporto intrattenuto da sesso e potere nel gioco dei ruoli all’interno della società, universalmente e necessariamente. Il fallocentrismo o la fallocrazia, con le loro raffigurazioni esplicite e alluse, rappresentano l’istanza totemica declinata al maschile (di qui l’equivoco sulla centralità della tematica omosessuale) di una condizione sociale strutturata su rapporti di potere. E il sesso nella visione fassbinderiana, di chiara ascendenza freudiana, è la metafora più scopertamente evidente del potere, e il fallo il suo simbolo d’elezione. Le dinamiche che intervengono a legare le figure della mise en scène hanno tutte un’origine di tipo sessuale e scaturiscono da un unico nucleo costituito dal desiderio (declinato nelle sue varie forme). L’intera pellicola si configura dunque come percorso melodrammaticamente distruttivo (raccontato da una voce fuori campo) dal potere del desiderio al desiderio di potere, o di sottomissione al potere in cui l’amore è ancora una volta più freddo della morte, pur nella sua prorompente energia libidica, destinato a determinarsi, nel soffocante e riarso perimetro d’azione della struttura sociale (l’apparato occlusivamente cromatico della scenografia allestita nella sublime asfissia del teatro di posa è semplicemente splendido), come squallido e strumentale veicolo del potere. Unica possibile rischiosissima salvezza la figura della donna (Lysiane, interpretata da un’attempata, meravigliosa Jeanne Moreau, che nella stilizzazione del racconto di Genet aveva più che altro una funzione evocativa), come principio femminile in grado di ridicolizzare la tracotanza fallocentrica del potere mascolinizzato, in pericoloso bilico tra angelo benevolo e demone della castrazione.